Un libro fotografico li racconta

Storia e leggenda dei Tuareg Il popolo blu guidato dalle donne

Storia e leggenda dei Tuareg Il popolo blu guidato dalle donne
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L’occasione per parlare dei Tuareg ce la offre, questa volta, un magnifico libro fotografico: The Tuareg or Kel Tamasheq and a history of the Sahara (I Tuareg, altrimenti detti Kel Tamasheq, e una storia del Sahara), pubblicato nel maggio di quest’anno da Unicorn Press per conto di The Royal Geographical Society. Le fotografie sono di diversi autori, molti dei quali evocano inevitabilmente la rifugiata afgana in Pakistan Sharbat Gula, i cui occhi verdi fissano l’obbiettivo di Steve Mc Curry, inviato del National Geographic Magazine. Dunque la vecchia Europa in gara con l’America a colpi di sguardi indimenticabili e modi di vivere ormai sul viale del tramonto.

Ma chi sono i Tuareg? Innanzitutto va detto che questo è il nome che usiamo noi. Loro si autodefiniscono “quelli che parlano la Tamaseq”, una lingua berbera. «Il termine [Tuareg] è di origine dialettale magrebina, poiché l'arabo classico non conosce il suono g [di “gatto”]. Per questo, in ambito arabofono spesso questo nome viene "classicizzato" in Tawāriq» [wikipedia].

 

https://youtu.be/GEnxvR07v8o

 

Ora, d’accordo con Voltaire sul fatto che nello studio dei mutamenti linguistici «le vocali contano niente e le consonanti pochino pochino», però se l’orecchio non ci inganna questo Tawāriq potrebbe aver a che fare con Tāriq ibn Ziyad (in castigliano e andaluso Tāriq lo sguercio) il condottiero berbero (appunto) che avviò la conquista islamica della Spagna visigota nel 711 (nostro; 92 dell’Egira). Dal suo nome deriva quello di Gibilterra (Jabal al-Ṭāriq, o Gebel al-Tāriq: la montagna di Tāriq; Gibraltar in castigliano) perché viene attribuita a lui la famosa esortazione: «O gente! Dov'è la via di fuga? Il mare è dietro di voi e i nemici sono davanti a voi» rivolta alle ciurme di invasori coi quali aveva appena toccato terra e dei quali aveva immediatamente provveduto a bruciare le navi. Dunque Tāriq - che di lì a poco sarebbe diventato il primo signore dell’Andalusia islamica - si chiamava, per così dire, Tuareg, secondo l’uso anche nostro di chiamare Italo o Italia bambini e bambine. Non siamo ancora arrivati a Europo o Europa, ma lasciamo che il tempo faccia i suoi danni.

E questo ci fornisce una prima importante informazione: che a sbarcare nella penisola iberica passando lo stretto non furono gli arabi, ma i magrebini. Più in particolare i Tuareg. Il bellissimo (anche se discusso) libro di Ignacio Olague, Les Arabes n'ont jamais envahi l'Espagne (Gli Arabi non hanno mai invaso la Spagna; Flammarion 1969) espone la vicenda in tutti i possibili dettagli.

 

 

Ma a noi non interessa Tāriq. Ci interessa di più il suo popolo, noto anche col nome di “Uomini blu” a motivo della tradizione che hanno i maschi di coprirsi il capo e il volto con un pesante panno di cotone blu indaco (latagelmust; la presenza della “g”, per quanto detto sopra, indica che non si tratta di nome arabo), la cui tinta si fonde, a motivo del sudore e di altro, con lo strato superficiale della pelle, accrescendone il fascino. I Tuareg, infatti, uomini e donne, sono fondamentalmente belli. In taluni casi bellissimi, come ha ricordato agli spettatori europei e americani il film di Bernardo Bertolucci Il tè nel deserto (1990). Il libro della Royal Geographical rende appunto omaggio a questa loro caratteristica, oltre che alla loro storia. Se ne può avere un assaggio su Mail Online, la versione web del quotidiano britannico Daily mail.

Come spesso accade quando si tratta di popolazioni nomadi, si ha l’impressione che la loro vicenda rispetti una specie di plot cinematografico, di copione fisso: per secoli hanno attraversato il Sahara da un estremo all’altro. Poi sono arrivate le potenze coloniali a tracciare confini dove prima non esistevano se non dune eternamente spostate dal vento. Da ultimo la decolonizzazione coi suoi inevitabili strascichi. Così attualmente il popolo che parla la Tamasheq vive in una zona che dal sud dell’Algeria e della Libia occidentale (regione del Fezzan) raggiunge il nord della Nigeria e del Burkina Faso passando per il Mali a occidente e il Niger a est. Questa distinzione fra Stati nulla ha a che vedere con la millenaria storia dei Tuareg, il cui nome - in questa forma impropria - deriva dal toponimo che in arabo indica il citato Fezzan.

 

 

E quando la storia antica e l’attuale disposizione dei confini entrano in conflitto accade spesso che anche i popoli si dividano al loro interno, in parte nel desiderio di avvicinarsi alla modernità, in parte nel tentativo di mantenere fede alla tradizione. A questo destino non hanno potuto sottrarsi nemmeno i leggendari Kel Tamasheq, che hanno assistito alla nascita, al loro interno, di una miriade di formazioni politiche, i cui progetti - non sempre facili da individuare - risultano spesso dispersi nella varietà delle posizioni che settori di quella etnia si vedono (o si ritengono) costretti ad assumere più per opporsi ai diversi Stati postcoloniali che per mantenere l’identità di appartenenza. In questa dispersione un ruolo importante gioca anche la tradizionale divisione dei Tuareg in popolazioni dalle caratteristiche differenti e, nelle diverse popolazioni, in caste (chiamiamole così) difficilmente permeabili, al punto da venir individuate anche attraverso il colore della tagelmust (che è indaco per i nobili e via via più chiaro - fino al bianco - per gli altri) e per il modo con cui viene portata e arricciata. Divisione significando in ogni caso debolezza, nella storia recente degli Uomini blu non sono mancati i massacri, il più famoso dei quali è quello di Tchin Tabaraden, in Niger, del 1990.

Al momento rimane tuttavia fisso un aspetto di questa civiltà che è stato adeguatamente sfruttato nella campagna di lancio del libro: il matriarcato. Tra i Tuaregh comandano le donne: sono loro che possiedono le greggi di cammelli (e di pecore, quando ci sono) e le abitazioni. In netto contrasto con le abitudini delle popolazioni arabe, nonostante abbiano abbracciato da subito l’islam, possono prendere la decisione di divorziare rimandando il marito a casa della madre e portandosi via i suoi beni e i figli. Come di norma (con le debite eccezioni) nelle popolazioni che si sviluppano per via matrilineare, sono le donne a conoscere il piacere di conquistare il cuore dell’uomo mettendo in mostra la loro avvenenza in forme ricercatamente codificate. Per questo, al contrario degli uomini, non si coprono il viso. Anzi: lo tingono con ocra e altri coloranti del deserto per rendere la loro pelle e il loro sguardo ancora più sensuali. Dromedari a parte, il matriarcato, in fondo, non sembra poi così male.

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