Francesco Medda, signor tenore

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Che Francesco Medda sia un tenore di alto lignaggio non ci possono essere dubbi. Basta ascoltarlo dal vivo o semplicemente sintonizzandosi su una delle tante trasmissioni web in video streaming per restare colpiti dalla sua voce calda e potente nella timbrica, e tuttavia al contempo scabra ed essenziale. Uno dei vezzi spesso imperdonabili del giornalismo è cercare sostegno nei paragoni per sopperire alla carenza di parole, alla difficoltà descrittiva di un concetto complesso. Forse lo sforzo è quello di essere "visuali" ed evocativi servendosi di un mezzo come la scrittura. Ebbene, anche io per una volta ancora, cado consapevole nella trappola: Francesco Medda ricorda istintivamente per asciuttezza e impostazione, per sobrietà stilistica del gesto il grande Mario del Monaco. Entrambi contrari ai fronzoli, entrambi con estensioni timbriche tese come raggi laser inconcessive alle ridondanze. Due autentici "signori" di quel genere tutto italiano e nobilissimo che è il melodramma.

La carriera di Medda che è assai lunga e luminosa, ha radici nella passione per la musica scaturita sin da piccolo che lo ha fatto cimentare con fisarmonica, pianoforte e chitarra. Ma sarà l'inclinazione per il canto ad avere la meglio col conseguimento di un prestigioso diploma presso l'Accademia Giuseppe Verdi di Parma. Arrivano gli anni dei concorsi brillantemente superati, poi quelli dei debutti in prestigiosi teatri: Cavaradossi nella Tosca di Puccini, quindi Manrico nell'opera Il Trovatore di Verdi e ancora Canio in Pagliacci di Leoncavallo. Quindi è la volta di Carmen, Turandot, Cavalleria Rusticana in cui veste i panni di Turiddu per approdare finalmente a Bergamo con Madama Butterfly e La forza del destino diretta da P. Mazzae, in cui interpreta Don Alvaro.

Attivo anche in ambito concertistico e presente in numerose iniziative e festival, Francesco Medda ha lavorato con importanti direttori come Chailly, De Bernardt, Bonynge, Gandolfi, Bellugi, e registi come Zeffirelli, Van Hoecke, Crivelli, De Tomasi e Colonnello. Lo incontriamo a Marsiglia in una assolata giornata d'agosto , durante una breve pausa estiva.

 

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Medda, cosa significa essere tenori oggi?

«Essere tenori significa poter interpretare alcune tra le pagine più belle della musica di sempre con lo strumento più bello al mondo: la Voce, nella tessitura più emozionante. Accusato in passato di gigioneria e istrionismo, il tenore oggi è più disciplinato. Ma forse ha perso un po’ di quell’aura colma di emozione che sapeva creare intorno a sé».

Il melodramma è una tradizione destinata a un futuro o a diventare archeologia?

«La tradizione è un rito di consuetudine che avvicina a un ideale, e in quanto a questo ci stiamo allontanando molto dalla prassi esecutiva che abbiamo ereditato. L'idea del rinnovamento “obbligatorio” dell'opera, specie nell'ambito della lettura drammaturgica, sta sradicando la tradizione. Ma alcune opere rimangono immortali. Trovano e sempre troveranno nell’esecuzione la loro ragion dì essere agli occhi dell'umanità. Altre magari rimarranno oggetto di studio per gli specialisti».

Qual è la situazione degli enti lirici in Italia?

«La concezione della funzione di teatro pubblico è cambiata. Non è più vista come un arricchimento culturale, e il teatro si sta svuotando lentamente del suo significato di crescita sociale. In poche parole, la situazione è pessima: i teatri tendono a chiudere o a essere brutalmente ridimensionati».

E all'estero?

«Valga come esempio il recente studio sull'impatto economico, turistico e politico del Teatro di Lyon sulla città. È la  dimostrazione di come una gestione intelligente possa essere anche efficiente. Maggiori investimenti, maggiore crescita per la città».

Quale ruolo ritiene più adatto a lei, quali opere sono più congeniali.

«Mi piace molto scavare i personaggi che interpreto, trovare le più profonde sfaccettature. Una delle mie opere preferite è senz'altro Otello. In passato, quando cantavo nella corda baritonale, ho vestito i panni di Jago, e ora cantando Otello mi pare di poter trovare una luce speciale che illumina le implicazioni psicologiche più profonde... In questo momento affronto Tristan. Finalmente mi confronto con Wagner: che musica sublime. Sono felice che la mia voce mi permetta di cantare una musica così carica di emozione».

Il suo compositore preferito?

«No, non ho risposta. Non mi sento di classificare la genialità».

In quale teatro si è trovato così a suo agio da volerci tornare?

«A volte ho voglia di tornare in un teatro dove non ho dato il meglio!».

Come giudica il panorama operistico italiano, a quale dei suoi colleghi va il suo entusiasmo?

«Per nostra fortuna, vedo che il pubblico si sta rinnovando, e che il virus dell'Opera è ben lontano dall'essere debellato. La mia ammirazione è volta a tutti i colleghi che, nonostante le difficoltà, specie in Italia, portano avanti la tradizione di cui parlavamo».

Ci sono cose che vorrebbe fare e che restano chiuse nel cassetto?

«Ho un'attività onirica piuttosto sviluppata, per cui quando il cassetto è pieno, ne prendo uno per  dargli vita. Però finisce d'essere un sogno...».

Il Suo repertorio si arricchisce anche in ambito concertistico. Anche lei viene tentato come i suoi predecessori da incursioni nella musica leggera?

«Ci sono alcune canzoni che si prestano ad essere interpretate da una voce con una impostazione lirica, altre le trovo ridicole se interpretate da un cantante di questo genere. Inoltre si pone un problema tecnico: il cantante d'opera studia un'impostazione vocale che permette alla voce di essere proiettata per essere udita anche dallo spettatore che si siede in ultima fila. Quando si abbandona questa impostazione per cantare una canzone di musica leggera, si corre il rischio di affaticare l'organo vocale. È per questo motivo che Pavarotti ha sempre cantato con voce impostata, mentre altri cantanti che si sono cimentati nella musica leggera abbandonando l'impostazione, hanno avuto problemi di logorio vocale nel riaffrontare l'opera. Per quanto mi riguarda, di quando in quando attingo al repertorio classico dei grandi crooner, ma non pretendo certo di affrontare il pop».

Vuole raccontare ai lettori Bergamo Post la sua esperienza professionale nella città orobica?

«Ho un bellissimo ricordo della mia unica incursione nell'ambito dell'operetta. A Bergamo ho interpretato per la prima volta il conte Danilo nella Vedova allegra. È stato un grande successo, ho passato il Capodanno lì ed è stato divertentissimo».

Quali sono le passioni che, oltre a quella per l'Opera, la coinvolgono in modo speciale.

«I cavalli, passione ereditata da mio padre. Inoltre sono fautore dell'otium, nel senso senechiano».

E a tavola, il tenore Medda che gusti ha?

«Quando sono in giro per lavoro, mi piace assaggiare i cibi tradizionali del luogo, solitamente dopo l'ultima recita, non si sa mai... A casa sono moderato,  faccio attenzione alla qualità dei cibi e tengo sotto controllo le calorie».

Lei è un uomo di stile, qual è il suo segreto?

«Esagerare, fino a trovare l'equilibrio».

Vuole lasciarci con un acuto? (Metaforicamente parlando)

«L'acuto è una forma di affermazione e di richiamo, come il vagito del bambino che chiama la mamma. Il mio è un richiamo a conoscere l'Opera, ad essere curiosi, a leggere i libretti, imparare le arie meravigliose. E ricordatevi che la vera Opera è unplugged. Venite ad ascoltarla dal vivo. Venite a condividere l'amore infinito con cui tutti noi proponiamo questa forma d’arte».

 

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