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Il grande ritorno del Romanino (e l'arte contemporanea di Frangi)

Il grande ritorno del Romanino (e l'arte contemporanea di Frangi)
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[In copertina, Girolamo Romanino, Madonna con il Bambino e san Paolo, Collezione UBI – Banco di Brescia]

 

Il ritorno del Romanino

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Girolamo Romanino <br> Sposalizio della Vergine <br> 1518-1520 ca., olio su tavola, 220x175 cm Brescia, Chiesa di San Giovanni Evangelista

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Girolamo Romanino <br> Assunzione di Maria Vergine <br> 1540-1545, olio su tela, 478x270 cm <br> Bergamo, Basilica di Sant’Alessandro in Colonna <br> Restauro a cura della Fondazione Credito Bergamasco

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Girolamo Romanino <br> Cristo morto compianto da angeli <br> 1535 ca., olio su tela, 86,4x109 cm <br> Ospitaletto (Brescia), Chiesa di San Giacomo Maggiore

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Girolamo Romanino <br> Cristo crocifisso <br> 1543-1545 ca., olio su tela, 74,5x53,5 cm <br> Breno (Brescia), Museo Camuno

Bentornato Romanino. Da oggi, 8 ottobre 2015, la grande pala di Sant’Alessandro in Colonna si presenta al pubblico rimessa a nuovo dopo il restauro, nella Sala Consiliare del Credito Bergamasco, la cui Fondazione ha promosso e sostenuto i costi dell’operazione. Il restauro è stato eseguito da Minerva Tramonti Maggi e da Alberto Sangalli.

Chi conosce questo grande quadro deve prepararsi alla sorpresa: quella che vedrà sarà un’opera che è stata liberata da quella patina un po’ opaca che ne riduceva l’energia. Oggi l’Assunta è tornata infatti alla sua luminosità originaria; un recupero che in particolare ha esaltato il fantastico paesaggio che occupa il cuore della tela. Dimenticatevi però l’immagine dello spazio rinascimentale, tutto equilibrio e compostezza. Per Romanino il paesaggio è selvatichezza, sono nuvole che turbano il cielo, alberi agitati da brezze inquiete. Non ci sono belle colline dolci, ma montagne anche con pendii impervi. Non ci sono alberelli, ma boschi e pini che svettano nel cielo quasi a pungere le nuvole. Il paesaggio è dunque la prima grande sorpresa della pala restaurata, sbucato fuori dall’opacità che lo aveva intrappolato. È da lì che arriva la luce nuova che inonda la tela. Una luce non mentale ma molto atmosferica: sembra quasi di percepire il clima di quel giorno, con il sereno ancora turbato da un acquazzone recente che ha infradiciato il verde dei prati e delle fronde.

La tela appartiene all’ultima stagione di Romanino: siamo intorno al 1545. E come capita agli artisti arrivati al culmine della maturità, acquisisce una sicurezza sfrontata, Non si preoccupa più di nascondere la propria anima chiassosa, come si vede nel disporsi disordinato dei suoi apostoli, contadini indisciplinati nella parte alta della tela. E non si preoccupa di depurare la sua Madonna che lievita in cielo sospinta da un manto azzurro e luminoso, da quei lineamenti un po’ paesani. Romanino è una bandiera del Rinascimento che non si allinea alla lingua ufficiale ma continua a parlare con la forza e la verità del suo dialetto.

L’occasione di riscoprire questo capolavoro e di vederlo molto da vicino è doppiamente interessante perché Fondazione Creberg ha pensato di raccogliere altre otto opere del grande artista bresciano, proponendo una vera mostra di Romanino, curata da Angelo Piazzoli, segretario generale della Fondazione e da Fabio Larovere, docente alla Cattolica di Brescia. Tra le opere è interessante il confronto tra due capolavori in cui Romanino tratta lo stesso soggetto: lo Sposalizio della Vergine. Infatti arriva sia la versione che viene dalla chiesa di San Giovanni Evangelista (dove è conservata la “cappella Sistina” della pittura bresciana, firmata da Romanino stesso e da Moretto), sia quella della Collezione Ubi – Banco di Brescia. La prima risale al 1520, la seconda invece è contemporanea alla pala restaurata.

A proposito di Moretto, anche lui non poteva mancare in questo omaggio all’artista con cui aveva fatto spesso coppia. In mostra infatti è arrivata la sua pala dalla chiesa bergamasca di Sant’Andrea, con la Madonna in trono col Bambino fra i santi Andrea, Eusebia, Domno e Domneone. Opera stupenda, per il pathos con cui Moretto dipinge i suoi santi e per la natura morta di mele, così precaravaggesca, alla base del trono.

 

Giovanni Frangi, Lotteria Farnese

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E l’8 ottobre è stato anche il giorno della presentazione di Lotteria Farnese di Giovanni Frangi, che verrà ospitata nella sede storica della Fondazione Credito Bergamasco fino al 30 ottobre. Questa esposizione prende vita parallelamente a quella del Romanino, ma il Creberg nella persona del suo Segretario Generale Angelo Piazzoli ha spiegato la necessità di dividere (per poi riaccostare) i due momenti, presentati dunque in circostanze separate.

Ed è lo stesso Piazzoli a spiegare il rapporto ormai consolidato con Frangi: «I frequentatori del Palazzo del Credito Bergamasco conoscono già l’opera di Giovanni Frangi. Appena varcato l’ingresso sono quotidianamente salutati da Domenica pomeriggio, una sua tela monumentale del 2008 che rappresenta un vasto cielo azzurro. Inoltre nelle collezioni della Fondazione esistono altri due dipinti dell’artista milanese, parte di una memorabile esposizione organizzata e ospitata da noi nel 2010 (Divina – Wallpaper). Ma ci siamo impegnati a dare continuità al rapporto con Frangi e con Lotteria Farnese siamo orgogliosi di poter mostrare al nostro pubblico una serie di tele che costituiscono il suo più recente approdo espressivo. Allestite nell’atrio principale del Palazzo, secondo un disegno articolato, le opere hanno una straordinaria nobiltà, nonostante siano fatte di tele cucite, con pezze di colori diversi.  Insieme alla mostra del Romanino apre una forbice ampia sull’arte, da quella antica alla contemporanea, e segnala un momento importante per la città da questo punto di vista».

Lotteria Farnese è una rassegna che ha debuttato presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli tra il novembre 2014 e il gennaio 2015, nella Sala della Meridiana (uno dei più grandi spazi coperti d’Europa). Venti enormi tele dipinte, distribuite intorno al celebre Atlante Farnese. Dieci di queste sono arrivate qui a Bergamo, ma non si tratta di una riproposizione sterile. Frangi infatti ha una visione non banale degli ambienti dove espone: «Di norma quando un’installazione finisce, anche l’opera viene smontata e perde di potenza. Per me quindi è fondamentale studiare la situazione in cui un lavoro viene collocato come un fatto pienamente creativo, non come una cornice ininfluente. Ad esempio in questo caso le mie opere sono passate da una sala importante come quella napoletana ad una che riesce persino a farle emergere con maggiore energia; le mostre devono essere come corpi che possono viaggiare. I lavori cambiano a seconda delle situazioni e della loro collocazione: nella memoria dei visitatori l’opera continua anche dopo ed è importante presentarla in modo creativo».

Aggiunge Frangi: «Leggendo un libro su David Hockney (A bigger message, conversazioni con David Hockney, di Martin Gayford) mi sono soffermato sul problema del paesaggio: la visione della realtà passa attraverso le opere d’arte. Prendiamo ad esempio un tramonto sulle Alpi bergamasche: esso può essere riplasmato dall’influenza del Romanino. Le opere modificano la visione delle cose. La fotografia ci dà un’immagine oggettiva, ma c’è poi uno scarto, un plusvalore che l’arte aggiunge alle cose e permette di creare impressioni incredibili. Sempre da un libro, contenente le lettere di Vincent Van Gogh al fratello Théo, ho colto l’importanza della sintesi. Nelle lettere al fratello infatti Vincent descriveva le sue opere e faceva dei piccoli bozzetti di queste: schizzi che rivelano l’abilità straordinaria dell’artista nel disegno. La sintesi è fondamentale: ho lavorato sul mio territorio, ma poi ho semplificato per giungere a una visione stilizzata».

Chiude Piazzoli: «Che senso ha accostare due mostre così diverse? Beh, i punti in comune ci sono. Innanzi tutto presentiamo opere artistiche parimenti eccellenti che portano bellezza, un valore sempre importante. Vogliamo poi proseguire nel tentativo di educare il pubblico e iniziarlo a forme artistiche meno note e congeniali al gusto comune. Infine, Romanino e Frangi hanno un punto di incontro nella figura di Giovanni Testori, intellettuale versatile che a Bergamo ha lasciato un pezzo di cuore: era un ammiratore del Romanino e si dice che ripetesse spesso in giro che il nipote, Frangi appunto, aveva talento: "Ha sgalmera, ha sgalmera", nel suo dialetto brianzolo. Questo aneddoto si trova in un testo scritto da Aurelio Picca, presente nel libro dedicato alla Lotteria Farnese».

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