A Gerusalemme è guerra. Il fuoco che da anni covava sotto la cenere è esploso. Hamas ha chiamato alla terza Intifada, «unica strada per arrivare alla libertà». Abu Mazen, a voce dell’Autorità Nazionale Palestinese, unico organo riconosciuto di governo nei Territori Palestinesi, frena e chiama alla calma. Intifada o no, sta di fatto che per le strade di Gerusalemme si cammina con il terrore di essere accoltellati o di essere raggiunti da un proiettile vagante. Perché il sindaco della città, Nil Barkat, ha invitato i cittadini con il porto d’armi a girare armati, a suo avviso per aumentare il senso di sicurezza nella popolazione. Ma ad avere il porto d’armi a Gerusalemme sono solo i cittadini israeliani, dato che ai palestinesi non è permesso.
La testimonianza. L’idea della situazione è data da un post pubblicato sul proprio blog dal monaco Andres Bergamini, che da anni vive a Gerusalemme sul monte degli Ulivi, e in questi giorni ha deciso di andare a Gaza: «Può sembrare assurdo, ma lasciare Gerusalemme, assediata dalla polizia e in preda allo sgomento dell’escalation di attentati, e venire nella piccola parrocchia cristiana della Striscia vuol dire staccare e trovare un po’ di tranquillità». Non che a Gaza si stia meglio, il bilancio dei morti solo ieri è stato di sei palestinesi uccisi dalle cariche e dagli spari dell’esercito israeliano che dal confine est hanno fatto finire nel sangue le manifestazioni organizzate a sostegno della causa palestinese. È da qui, dal suo centro di potere, che il leader di Hamas, Ismail Hanyeh, durante la preghiera del venerdì ha chiamato alla Terza Intifada.
Venerdì della collera. È stato un venerdì della collera quello di ieri in tutta la Cisgiordania, che ha provocato decine e decine di feriti. Oggi, che per gli ebrei è Shabbat, giorno di riposo assoluto, non si preannuncia niente di buono. La Città Vecchia di Gerusalemme, che per lo status internazionale fa parte di Gerusalemme Est, la parte occupata militarmente da Israele nel 1967, è blindata, i palestinesi non possono entrare e la Spianata è rimasta chiusa. I fedeli musulmani hanno pregato sul piazzale fuori dalle mura di Solimano nei pressi della porta di Damasco, cinti da un cordone di polizia in assetto antisommossa. A Nablus, Hebron e nelle altre città palestinesi la situazione è stata simile. Anche nel resto di Israele, le cose non sono andate meglio. Impressionanti le immagini mostrate da un video girato nei pressi della stazione degli autobus di Afula, nella bassa Galilea, dove la polizia ha sparato a bruciapelo a una donna palestinese musulmana. Si riteneva che volesse accoltellare un poliziotto. In altri video dei giorni passati si vedono agenti israeliani travestiti da palestinesi che durante gli scontri estraggono l’arma e sparano a bruciapelo.
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Liberare Gerusalemme. Voci sul campo sostengono che la situazione sia decisamente critica, ma che finché Abu Mazen sarà al potere non ci sarà una nuova intifada: questa ondata di violenze pare non essere quindi destinata a durare a lungo. Comunque la si chiami, la battaglia che si sta combattendo è quella per Gerusalemme e per il suo luogo simbolo di santità per le tre grandi religioni monoteiste, la Spianata delle Moschee, chiamata dagli ebrei Monte del Tempio. Uno status su cui le diplomazie internazionali da anni non stanno ragionando, permettendo a entrambe le parti di alimentare una tensione latente e quel conflitto a basso impatto che da troppo tempo sta pervadendo la città. Screzi, ripicche, giochi di potere, radicamento delle proprie posizioni… Tutti elementi che hanno portato alla degenerazione di questi giorni.
Cosa succede. Il copione è più o meno sempre lo stesso: i palestinesi vengono uccisi o feriti dai proiettili della polizia perché accoltellano i passanti ebrei. Talvolta, però, basta il sospetto di avere con sé un coltello e l’azione della polizia è a scopo preventivo. Lo si vede chiaramente in un altro video, girato poco fuori dalla porta di Damasco, in cui un gruppo di coloni ebrei ultraortodossi incita gli agenti a sparare a un ragazzo che è ritenuto un terrorista. La polizia, nel dubbio, esegue e il ragazzo cade a terra sotto il fuoco dei proiettili. Le parti si sono ribaltate a Dimona, nel sud di Israele, nel deserto del Negev. Qui ad accoltellare quattro arabi è stato un israeliano, che poi è stato arrestato.
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Le ragioni della violenza. La violenza che i palestinesi hanno messo in atto nell’ultimo periodo, arriva dopo anni e anni di occupazione militare e di diritti negati. L’ultimo in ordine di tempo è arrivato ieri sera, quando è stata revocata la residenza a due palestinesi, ritenuti responsabili di un paio di attacchi nei giorni scorsi, residenti a Gerusalemme Est (e per questo già di per sé privi di passaporto, ma muniti solo di carta d’identità di Gerusalemme, che non vale niente al di fuori della città). Un provvedimento che ha riguardato 14.309 palestinesi dal 1967 al 2013. A Gerusalemme Est vivono 303mila palestinesi: quelli che hanno potuto si sono condensati prevalentemente nei quartieri “al di qua” del Muro di Separazione. Sono spesso disoccupati, non hanno accesso all’istruzione, vivono di espedienti, le loro case vengono spesso demolite per ordine della municipalità di Gerusalemme. Anche Amnesty International ha accusato le autorità israeliane di fare un uso eccessivo della forza e di compiere omicidi ingiustificati. Una vita difficile, in cui non si ha più nulla da perdere come sostiene la giornalista di Haaretz Amira Hass.
L’analisi di Gideon Levy. I numeri elencati fanno pensare, e hanno spinto uno dei più autorevoli giornalisti israeliani, Gideon Levy, a scrivere: «Anche Mahatma Gandhi avrebbe capito le ragioni di questa esplosione di violenza palestinese. Anche chi considera tutto questo come immorale e inutile, non può fare a meno di capire perché scoppia periodicamente. La domanda è: perché non esplode più spesso?». E sulle colpe di questa violenza l’editorialista di Haaretz non ha dubbi: «Non è che i palestinesi siano senza colpa, ma la colpa principale è sulle spalle di Israele. Fino a quando Israele non si scrollerà di dosso questa colpa, non ha alcuna base per porre la domanda ai palestinesi. Tutto il resto è falsa propaganda».