Perché l'Europa boicotta Israele con il marchio "Territori occupati"
La Commissione europea ha definitivamente approvato la cosiddetta “nota interpretativa” riferita alle linee guida emesse nel 2013 in merito all’etichettatura dei prodotti provenienti dai territori considerati occupati da Israele. In buona sostanza, determinati prodotti commerciali che hanno origine in quelli che vengono definiti gli “insediamenti” di Israele verranno appositamente marchiati così da essere immediatamente riconoscibili. L’approvazione finale della nota è arrivata grazie alla robusta spinta di 16 Paesi membri dell’Ue, fra cui anche l’Italia. Una decisione, dall’efficacia istantanea, che ha generato l’ira di Tel Aviv, che ha deciso di sospendere il dialogo diplomatico con l’Europa rispetto ad alcuni temi, su tutti quelli politici e relativi ai diritti umanitari. Si tratta di una scelta, quella dell’Ue, in linea con il clima di profonda tensione e rigetto che da alcuni mesi a questa parte l’Occidente ha deciso di instaurare nei confronti di Israele.
I dettagli della nuova normativa e il giro di affari. L’etichettatura con l’indicazione d’origine diviene obbligatoria, secondo le regole generali del commercio nell’Unione europea, per i prodotti agricoli e per i cosmetici. È però consentito che venga indicato come “made in Israel” il vino imbottigliato entro i confini del 1967 e anche se prodotto con uve coltivate negli insediamenti, per il principio secondo il quale prevale la provenienza in cui viene realizzata la maggior parte del valore aggiunto. In base all’accordo di associazione tra Israele e Unione europea, i prodotti dei territori occupati, dal 1967 in poi, in Cisgiordania e nel Golan sono esclusi dai benefici doganali. L’obbligo di etichettatura, è stato spiegato da fonti della Commissione, ricade sull’intera filiera: dal produttore all’importatore fino al dettagliante. E potrà fondarsi sui documenti doganali di accompagnamento delle merci. È lasciata ai singoli Paesi la scelta della dizione da adottare, ma deve essere indicato chiaramente che il prodotto in questione viene da un insediamento. Da un punto di vista del volume del commercio, i prodotti marchiati pesano sull’import/export fra Israele e Ue per circa 154 milioni di euro, secondo i dati del 2014 (sempre che l’obbligo di etichettatura non venga in futuro esteso ad altri beni).
La reazione di Israele. «Una scelta di questo tipo non può permettere un progresso del processo di pace, al contrario potrebbe rafforzare il rifiuto dei palestinesi a tenere negoziati diretti con Israele»: questo è quanto ha dichiarato il ministro degli Esteri israeliano, mentre l’ex rappresentante di Gerusalemme a Bruxelles, Oded Eran, ha notevolmente accentuato i toni, sostenendo che: «È solo il primo passo, il prossimo sarà che i parlamenti nazionali non consentiranno la circolazione delle merci dagli insediamenti». Dello stesso appello è Itzik Shmuly, parlamentare di Gerusalemme: «L’Europa ha vergognosamente deciso di rafforzare coloro che conducono la campagna per il boicottaggio di Israele, il cui obiettivo è cancellare il nostro Paese dalle carte geografiche, e non certo promuovere la pace». Anche i diretti operatori, come ha raccontato un produttore di frutta israeliano al quotidiano The Marker, sono molto preoccupati: «Gli importatori europei ci dicono che non possono vendere prodotti israeliani. Tutti hanno paura di vendere frutta israeliana». Infine, ecco le dichiarazioni del Premier Netanyahu: «L’Ue dovrebbe vergognarsi per la discriminazione che punisce la parte che è sotto attacco dal terrorismo». A Gerusalemme, insomma, circola il timore che questa nuova normativa europea sia solo il primo, ma forse addirittura un ulteriore, passo verso l’isolamento di Israele e il boicottaggio non solo dei prodotti nazionali, ma del Paese in senso ampio e generale.
Ma che sta succedendo con Israele? A ben guardare diversi contesti riguardanti i rapporti fra il mondo e Israele, il dubbio che non si sia di fronte ad una mera applicazione tecnica di una normativa comunitaria, ma a qualcosa di più ampio e preoccupante, sorge spontaneo. Per provare a capirci qualcosa in più, può essere utile analizzare il comportamento di molti mondi accademici, istituzionali ed economici degli ultimi tempi. Colpisce, per esempio, l’istituzione dell’“Israeli Aparthied Week”, un annuale convention anti-Israele creata, e spesso promossa, in molte università del mondo, dall’Australia, alla Germania, alla Francia, all’Italia, al Giappone fino a Usa e Regno Unito. Sempre rimanendo in ambito accademico, non è facile spiegarsi la decisione di 300 professori universitari britannici, avvenuta un paio di settimane fa, di firmare un documento volto alla richiesta dell’interruzione dei rapporti con qualsiasi istituzione accademica israeliana, e con i relativi studenti; un accadimento che ricorda molto la presa di posizione che assunsero molte università francesi allo scoppio della Seconda Intifada, nel 2000 (scoppiata all’epoca per il solo motivo della visita del Premier israeliano Sharon al Monte del Tempio).
Anche da un punto di vista economico, si susseguono avvenimenti che lasciano perplessi: Sodastream, azienda israeliana produttrici di bibite gassate, è stata costretta a chiudere un impianto situato presso un insediamento; Agrexco, il più grande esportatore israeliano di prodotti agricoli, è entrato in liquidazione a causa di una crisi finanziaria causata in buona parte da manifestazioni, lobbying dei supermercati e dei governi, boicottaggi popolari e l’azione legale di 13 Paesi europei; la Disney ha dismesso gli investimenti in Israele; la multinazionale francese Veolia è stata presa di mira in molti Paesi a causa della sua fornitura di servizi idrici ad Israele. E si potrebbe proseguire con le iniziative di etichettatura dei prodotti israeliani da parte di Belgio, Danimarca e Inghilterra avvenute ben prima dell’approvazione della nota dell’Ue, o l’inserimento da parte della Deutsche Bank, la più grande banca tedesca, dell’israeliana Poalim Bank in una lista di compagnie riguardo le quali gli investimenti sollevano “questioni etiche”. L’elenco potrebbe davvero essere infinito.
Una domanda e un timore. La questione sorge da sé: perché il mondo sta tentando di ostracizzare Israele? Di boicottare la sua economia, il suo mondo accademico, le sue istituzioni principali? Se i toni appaiono esagerati, basti considerare che sul tavolo della Commissione europea, dopo i marchi ai prodotti degli insediamenti, sono già presenti gli abbozzi di alcuni nuovi provvedimenti, di questo tenore: le banche israeliane che offrono mutui ai proprietari di case in Cisgiordania potrebbero essere sottoposte a sanzioni; le catene di vendita al dettaglio che detengono negozi negli insediamenti potrebbero essere escluse dal mercato europeo; la marchiatura potrebbe coinvolgere tutti i prodotti di origine israeliana, non solo quelli degli insediamenti; gli israeliani che vivono negli insediamenti potrebbero perdere la possibilità di viaggiare in Europa senza visto; le università israeliane in quei territori potrebbero perdere il riconoscimento da parte di Bruxelles, e addirittura si parla di una possibile esclusione dalla Uefa delle squadre di calcio di citta insediate.
Ad aggravare il tutto, per altro, non si può non tenere conto del fatto che Israele sta vivendo quella che viene chiamata ormai una Terza Intifada, quella cosiddetta “dei coltelli”, a causa della quale da alcuni mesi si susseguono attentati terroristici a ripetizione, con diverse decine di israeliani che già hanno perso la vita. Una situazione delicatissima di per sé, a cui si aggiungono ulteriori e incomprensibili oneri. Ben sapendo quanto possa essere imprudente associare le marchiature dei prodotti alla stella gialla di Davide che fu, resta la domanda: perché è in atto un tentativo di boicottare, sanzionare, ostracizzare e isolare Israele? Perché, dopo decenni di silenzio e indifferenza, il mondo si riscopre filopalestinese? È tutto qui, o è solo la giustificazione di copertura di chissà quale altro progetto (che, peraltro, gli israeliani non hanno dubbi sull’identificare: la scomparsa del loro Paese)?
Domande a cui, per ora, è impossibile dare una risposta certa e al di sopra delle parti. Vivo e chiarissimo è invece un timore: l’indebolimento e l’isolamento di Israele potrebbe amplificare, forse addirittura in maniera irreversibile, il caos in Medio Oriente (leggasi tranquillamente l’Isis). Israele è l’unico Paese di quella fetta di mondo in cui vige una vera libera circolazione delle idee, una vera libertà religiosa e di coscienza, insomma dove vige una vera e libera democrazia. Gli arabi israeliani presiedono, tuttora, alla Corte Suprema di Gerusalemme, anche i partiti di matrice musulmana più ostili a Israele hanno i loro seggi nel Parlamento. Mettere nel mirino con tanta foga un esempio quantomeno di tolleranza reciproca e di rispetto delle libertà individuali come non ce ne sono altrettanti in tutta l’area mediorientale potrebbe rivelarsi un clamoroso autogol da parte dell’Occidente.
Sia da un punto di vista socio-culturale (oltre a quanto detto, Israele è il primo Paese al mondo per numero di lauree pro capite, il primo per numero di musei pro capite, il secondo per numero di libri pubblicati, sempre pro capite: discretamente importante in una zona dove l’Isis sta distruggendo qualsiasi tipo di testimonianza di cultura, tradizione e storia), che prettamente di strategia politica: la facoltà di godere dell’appoggio di Gerusalemme, anche solo in termini strumentali, è stato elemento fondamentale affinché i tanti interventi occidentali in Medio Oriente degli ultimi anni (dalla guerra in Iraq a quella in Siria) non siano stati una tragedia anche peggiore di quanto già lo siano stato. Inimicarsi irreversibilmente un alleato sì bizzoso, scorbutico e orgoglioso, ma strategicamente imprescindibile in Medio Oriente come Israele sarebbe il più grande errore commesso dall’Occidente da tempi immemori. Una domanda dunque, “Perché?”, e un timore: che un’inspiegabile presa di posizione possa arrecare danni irreparabili.