La Libia sprofonda nel caos Come si è arrivati a questo punto?
«I gufi, le riforme, i conti non mi preoccupano. La Libia sì invece. Ma sembra impossibile parlare seriamente di politica estera #piccinerie». È un tweet del premier Matteo Renzi che dimostra quanto sia grave la situazione libica e quanto sia prioritaria nell’agenda di governo. Tanto che Renzi ha telefonato al segretario delle Nazioni Unite Ban Ki Moon per chiedere una mediazione dell'Onu che metta fine allo scontro tra le fazioni, a cui ha fatto seguito una conference call con il presidente americano Barack Obama. Ogni giorno la Libia sprofonda sempre più nel caos e non accennano a diminuire le violenze. Segno del fallimento dell’intervento armato occidentale che non ha saputo accompagnare il Paese nella difficile transizione dopo la caduta del colonnello Muhammar Gheddafi. Non si è riusciti a “esportare la democrazia”: si è instaurato un sistema anarchico di stampo tribale che ha frammentato il Paese facendo nascere, dalla Tripolitania alla Cirenaica, movimenti interessati a mettere le mani sul petrolio.
La “miccia” del nuovo Parlamento. Il 4 agosto a Bengasi (non nella capitale Tripoli), si dovrebbe insediare il nuovo Parlamento eletto lo scorso giugno. Elezioni che, secondo i risultati parziali, hanno eletto la coalizione dei liberali contro gli islamisti. Sui 200 seggi del Parlamento, 168 andranno a candidati indipendenti, indirettamente legati ai partiti, mentre i restanti 32 saranno assegnati alle donne come quote rosa. Le diplomazie internazionali speravano, con il nuovo Parlamento, in una stabilizzazione del Paese. Invece il voto ha funzionato come una miccia: la Libia, con i suoi tanti pozzi e la sua falsa guerra lampo, è tornata a bruciare.
Gli scontri e gli incendi: una catastrofe umanitaria e ambientale. A Tripoli sono ormai due settimane che diverse milizie si contendono il controllo dell’aeroporto e le riserve energetiche. Un combattimento tutti contro tutti. Da quando le milizie di Misurata hanno attaccato quelle di Zintan ad oggi, si contano cento morti e 400 feriti. Oggi la Libia è in fiamme e non ci sono più né acqua né elettricità. Si stanno susseguendo in queste ore roghi nei depositi di carburante che i vigili del fuoco non riescono a domare. Si parla di una catastrofe umanitaria e ambientale i cui esiti sono difficilmente prevedibili. Il portavoce della Compagnia petrolifera nazionale, Mohammed al-Harari, ha dichiarato che il deposito ha una capacità di 6 milioni di litri e che, se le fiamme non vengono domate in tempo, possono intaccare i vicini depositi di gas liquido. Il governo ad interim libico ha chiesto l’aiuto della comunità internazionale per spegnere gli incendi. In un primo momento sembrava che anche l’Italia avesse inviato 7 canadair, ma la Farnesina ha smentito.
E se Tripoli brucia, il resto del Paese non sta meglio. Più a est, in Cirenaica, forze speciali libiche e gruppi armati islamici si stanno scontrando a Bengasi: le vittime sono decine. Proprio a Bengasi, i ribelli jihadisti hanno conquistato la principale base delle forze del generale Kalifa Haftar, personaggio controverso che da mesi ha iniziato l’operazione “Dignità” per liberare la Libia dall’islamismo. La frammentazione geografica del Paese porta con sé il pericolo di una totale ingovernabilità, con l’alto e concreto rischio di una radicalizzazione delle milizie jihadiste.
Si svuotano e chiudono le ambasciate. Le ambasciate stanno chiudendo: non sono solo gli americani ad aver fatto rientrare il proprio agente diplomatico e ordinato ai cittadini di abbandonare il Paese. Anche Paesi arabi come Turchia, Arabia Saudita e Algeria hanno preso la stessa decisione, insieme a Germania, Francia, Spagna, Regno Unito, Olanda, Serbia e Austria. L’Egitto ha chiesto ai suoi connazionali di spostarsi al confine con la Tunisia, dato che via aria è impossibile muoversi, e via terra per rientrare in Egitto bisogna attraversare le zone orientali del Paese che sono ancora più pericolose di Tripoli. Le Nazioni Unite sono state le prime ad andarsene: con la chiusura dell’aeroporto di Tripoli è stato deciso il ritiro di tutto il personale della Missione Unsmil. La Tunisia teme si verifichi una situazione analoga al 2011, quando centinaia di migliaia di libici si rifugiarono nel Paese, e minaccia di chiudere le frontiere. Oggi sono circa seimila i libici che ogni giorno passano il confine.
L’Italia rimane (Eni compresa) ma sono vietati nuovi viaggi nel Paese. L’Italia rimane e l’ambasciata funziona a pieno regime, per assicurare il massimo impegno a tutela della collettività e degli interessi nazionali in Libia. L’ambasciatore Giuseppe Buccino ha dichiarato che resterà per tutelare gli oltre 200 italiani e gli 800 italolibici che vivono nel Paese. È stata tuttavia attivata l’Unità di Crisi della Farnesina per procedere a un piano per il rientro volontario degli italiani che in Libia vivono e lavorano. Già nei giorni scorsi la situazione era tesa e il Ministro degli Esteri Federica Mogherini aveva disposto la tutela dei connazionali nelle zone più a rischio del Paese. Finora sono un centinaio gli italiani rientrati. In una nota della Farnesina del 27 luglio si legge: «L'uscita dalla Libia è avvenuta con convogli via terra verso la Tunisia e con il ricorso a velivoli dedicati disposti dall'unita di crisi, uno dei quali è partito proprio questa mattina, grazie al concorso della nostra aeronautica militare, con destinazione Pisa. Su richiesta di alcuni governi l'Italia si è occupata anche del trasferimento di persone di nazionalità diversa». Il sito viaggiaresicuri sconsiglia assolutamente viaggi in Cirenaica o a Bengasi e temporaneamente anche a Tripoli. L’Eni fa sapere che le sue attività proseguono regolarmente, ma nei giorni scorsi, seguendo l’esempio della spagnola Repsol e della francese Total, ha trasferito i suoi tecnici del giacimento nordoccidentale di Mellitah sulla piattaforma offshore di Bouri, 120 chilometri dalle coste libiche.