Moschea a Bergamo, spettro Qatar Perché fanno paura i soldi dal Golfo
Si fa intricata la vicenda della moschea “fai da te” che Bergamo rischiava di trovarsi di avere nell’ex-concessionaria Fiat di via Santi Maurizio e Fermo. L’assessore Angeloni, ieri, ha voluto prendere posizione netta, sottolineando come «un’eventuale moschea avrà dimensioni proporzionate alla richiesta dei nostri cittadini di fede musulmana e non sarà pertanto sovradimensionata per candidarsi a luogo di riferimento né provinciale né regionale né tanto meno nazionale». Perché al di là della storia per cui si è mossa la procura di Bergamo - ossia la denuncia per appropriazione indebita mossa dal presidente del centro islamico di Via Cenisio, Mohamed Saleh, verso il suo predecessore Imad El Joulani - ciò che preoccupa, più di tutto, è altro. Ossia il coinvolgimento della Qatar Charity Foundation, ente del Golfo che ha stanziato per il progetto ben 5 milioni, un quinto di quanto vorrebbe utilizzare in Italia per realizzare 33 centri islamici. Che la cifra sia maxi è confermato pure dal tesoriere dell’Ucoii, Ibrahim Mohamed, che all’Eco ha spiegato come gli intenti siano di fare di Bergamo «una città simbolica, con un progetto forte di richiamo nazionale».
Le parole di Scola. Il dibattito sulla costruzione delle moschee, in Italia, è sempre spinoso. Il nostro Paese accorda la libertà di culto a chiunque, e, come ad esempio ha ben spiegato l’arcivescovo di Milano Angelo Scola in più occasioni, non è in discussione che i musulmani possano avere un luogo dove poter coltivare la propria religione. Da pastore cattolico, il Cardinale nel 2013 sottolineava come i cristiani stessi «hanno lottato e ancora lottano, fino a pagare con la propria vita, perché tutti abbiano la libertà di credere e possano accedere ai mezzi necessari perché il culto fecondi la vita». È proprio Milano una delle città in cui la questione “moschea sì, moschea no” è emersa con più vigore, ma il problema vero, come ha affermato di recente sempre Scola, «è vedere chi sta dietro a chi domanda la moschea. E a quali condizioni: chiedersi se la comunità è effettiva e unita oppure se c'è un intervento dall'esterno, a opera di Paesi stranieri».
[Doha]
Le accuse alla Qatar Charity Foundation. In effetti, non è questione lineare l’intervento da 5 milioni della Qatar Charity Foundation. Una sigla che raccoglie soldi per progetti benefici di vario genere: costruzione di scuole, progetti per la salute, lotta alla fame, orfanotrofi e… costruzione di moschee. Ma la QC è una sigla inserita da Israele nella blacklist delle associazioni che sostengono integralismo e terroristi dal 2011, e più volte è stata associata al finanziamento di gruppi islamici operanti in diverse parti del globo. Ad esempio, Foreign Policy, testata sempre attenta alle vicende internazionali, nel 2013 portava alcune prove per sostenere i legami tra la Qatar Charity e il terrorismo islamico.
Siria, Mali, Egitto, Al Qaeda... Si cita, ad esempio, il Syrian Islamic Front, gruppo d’opposizione siriana d’ispirazione jihadista: in un loro video del 2012 compare proprio la sigla della Ong qatariota, impressa su alcune scatole. Ma si parla anche delle armate islamiche che operavano nel nord del Mali, sostenute nell’acquisto di armamenti, o della lotta dei Fratelli Musulmani all’ex-presidente egiziano Mubarak. L’accusa, però, più grave porta dritto dritto a Bin Laden: le carte di un processo svolto negli Usa evidenziano come, nel ’93, il futuro “sceicco del Terrore” si sarebbe rivolto anche all’associazione (allora nota come Qatar Charitable Society) per sostenere l’ascesa di Al Qaeda. Di queste denunce, a noi, è ardua valutare la totale veridicità, ma restano comunque episodi che non offrono certo la migliore immagine della Qatar Charity Foundation.
[Belgio, militari in strada nei giorni successivi alla strage di Parigi]
Il caso Molenbeek. E al di là delle singole accuse, quella dei finanziamenti arabi e qatarioti alle moschee è una questione di principio. Dopo gli episodi di terrorismo che hanno sconvolto l’Europa negli ultimi mesi, l’attenzione verso le comunità islamiche insediate nelle nostre città si è moltiplicata. Così come la necessità di avere moschee che siano luoghi puliti e sicuri, non centri di indottrinamento fondamentalista. Nessuno vuole che si ripetano casi come quello di Molenbeek, il quartiere di Bruxelles dove sono cresciuti alcuni terroristi e dove sarebbe “nata” la strage del Bataclan. Il caso del Belgio è paradigmatico e spiega tante cose: «Il peccato originale, in Belgio, consiste nell’aver consegnato le chiavi dell’islam nel 1973 all’Arabia Saudita per assicurarci l’approvvigionamento energetico», è stato quanto detto alla stampa locale da Rachid Madrane, ministro belga di origine marocchina, proprio dopo i fatti del 13 novembre. Il problema della capitale belga sta proprio qui: aver lasciato aprire ai sauditi molte moschee, con corsi di islam e Corano, imam e guide scelti dal Paese finanziatore stesso. Così, «la pratica dell’Islam ha subito le infiltrazioni di wahabismo e salafismo». Proprio quello che nessuno vuole che succeda in Italia e a Bergamo.