L'esodo dei siriani in fuga da Aleppo dove si consuma la battaglia finale
Sta assumendo proporzioni bibliche l’esodo dei siriani da Aleppo, la seconda città più popolosa della Siria. Si dice siano almeno 70mila gli abitanti che in queste ore si sono dati alla fuga, abbandonando le loro case, i loro beni, i loro averi, per tentare di scappare alla guerra. Aleppo in questi ultimi giorni si sta apprestando a diventare il teatro di quella che potrebbe essere una battaglia definitiva. Perché l’esercito regolare del governo di Bashar al Assad, aiutato via terra dalle milizie di Hezbollah e dai pasdaran iraniani, e via cielo dagli aerei russi, dotati di sistemi di precisione per i bombardamenti, sta tentato di riconquistare il cuore della Siria, ossia la città che più ancora di Damasco è sempre stata il simbolo della Siria.
Aleppo, divisa in due. In sostanza Aleppo da quattro anni è divisa in due. Da una parte, quella ovest, c’è il governo con le sue truppe. Dall’altra le varie forze ribelli, composte dall’Esercito Siriano Libero, il Fronte Al Nusra (filiale siriana di Al Qaeda) che è sempre più consistente, gli islamisti ai Ahrar al Sham, e infine l’Isis, che da est ha premuto fino ad arrivare alla periferia della città. Grandi assenti sono gli oppositori democratici ad Assad, che ormai sono fuggiti e che comunque sono invisi anche a tutte le altre forze ribelli, quasi tutte sostenute dalla Turchia. La scorsa settimana i lealisti hanno preso il sopravvento, facendo irruzione in molti quartieri controllati dai rivali. Quello che ne è uscito è un quadro desolante di violenza, con i soldati che casa per casa rastrellavano il terreno a caccia dei miliziani antagonisti. Dopo la rapida avanzata degli ultimi giorni, l’esercito regolare siriano fa sapere che ultimerà “a breve” l’accerchiamento della città.
Com’era Aleppo. Prima della guerra Aleppo era la città più ricca del Paese, patrimonio dell’umanità dell’Unesco per le sue bellezze artistiche, capitale culturale di tutto il mondo islamico, una centro che racchiudeva tra i suoi vicoli, e i suoi cortili oltre cinquemila anni di storia. Oggi invece è ridotta a un cumulo di macerie, con palazzi distrutti, case abbandonate, edifici occupati militarmente e trasformati in basi di comando dei ribelli e dello Stato Islamico. La sua gente, la poca rimasta, soffre di fame e di sete. Non c’è più acqua potabile. Le Nazioni Unite hanno denunciato che «la situazione sul terreno è insostenibile e l’escalation del conflitto è inquietante», e da più parti la città oggi viene definita la «Sarajevo del XXIesimo secolo».
La Turchia non apre le frontiere. Così alla gente non resta che fuggire, ammassandosi da alcuni giorni al confine con la Turchia, in attesa che Ankara decida di aprire le sue frontiere. Onu e governo turco forniscono numeri spaventosi: 70mila, forse 100mila persone aspettano di entrare. Famiglie, donne, anziani, bambini arrivati a piedi che aspettano invano perché la Turchia il suo valico non lo vuole aprire: ha già due milioni e mezzo di profughi e di più non intende accoglierne, nonostante i consistenti aiuti che l’Unione Europea ha stanziato nei vari vertici che il presidente Erdogan ha avuto con Merkel e gli altri leader di Bruxelles. Non solo: le autorità turche hanno cominciato a innalzare un muro di divisione nell'unica zona frontaliera a nord di Aleppo non controllata dall'Isis.
Le accuse tra Turchia e Russia. La battaglia di Aleppo porta con sé anche un pesante scambio di accuse tra Ankara e Mosca, con i turchi che incolpano i russi di aver provocato l’esodo con i loro bombardamenti. Un’accusa a cui il Cremlino replica affermando che invece la Turchia starebbe preparando un’incursione militare in Siria. Ipotesi che il Presidente turco bolla come “ridicola” e frutto della volontà di divergere l’attenzione da quelli che Ankara chiama “crimini russi”. In questo reciproco scambio di accuse si affacciano anche i sauditi, che si sono detti pronti a inviare le loro truppe in Siria per combattere l’Isis. Ma di fronte a questa possibilità il ministro degli esteri siriano, Walid al Muallim, ha ribattuto che i militari stranieri che entreranno nel Paese «torneranno in patria nelle bare», perché «ogni attacco al territorio siriano senza il consenso del governo sarà considerato un atto di aggressione e ci si comporterà di conseguenza».
Voci di speranza. In un quadro bellico di queste proporzioni, dove amici e nemici spesso si confondono, si alza una voce di speranza. È quella della comunità cristiana che fa capo alla parrocchia di San Francesco guidata dal francescano Fra Ibrahim Alsabagh. Qui lo scorso 13 dicembre è stata aperta la porta santa in occasione del giubileo. È una delle tre porte sante aperte in Siria (le altre sono a Damasco e a Latakia), posta in un luogo simbolo, perché quella di San Francesco è la chiesa che il 25 ottobre scorso venne colpita e danneggiata da un lancio di granate scagliate dai ribelli. Oggi è l’unica chiesa della zona a essere ancora agibile.