Un po' di storia

Estate 1981: come la Dea si risollevò dal trauma della C grazie al “bresciano” Ottavio Bianchi

Estate 1981: come la Dea si risollevò dal trauma della C grazie al “bresciano” Ottavio Bianchi
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Oggi si parla di Champions League. Di trasferte negli impianti più belli del mondo, ricchi di fascino e storia, come Anfield Road o l’Amsterdam Arena, ribattezzata Johan Cruijff Arena per rendere onore a una delle figure più importanti e mitologiche della «Dea Eupalla», come amava chiamare il pallone l’immenso Gianni Brera. Si parla di Scudetto. Di quanti goal possa realizzare la compagine di Gasperini, che riesce a rendere semplici anche le cose più complesse e continua ad inanellare successi, come quelli che riescono a cogliere gli utenti dei migliori siti casino legalmente riconosciuti, dove il divertimento e la sicurezza sono garantiti dal marchio AAMS.

Dal sogno del ritorno in Serie A, all’incubo Serie C: un trauma per Bergamo e i bergamaschi

Un tempo, però, la nostra amata Dea era ben lontana da quei palcoscenici. E le avversarie avevano nomi di un appeal ben differente, come Trento, Fano e Rhodense. Certo, bisogna tornare con la mente a tempi lontani, in cui i personal computer iniziavano a prendere piede, poco alla volta, nella nostra società. Ed i cellulari e Internet erano un esercizio di pura fantasia.

Correva l’anno 1981. L’Atalanta, per la prima - e fortunatamente unica - volta, si appresta a disputare un campionato di Serie C. Un affronto per migliaia di sportivi bergamaschi, che, come noto, amano la Dea più di qualsiasi altra cosa. E l’ambiente, in tal senso, non era certo dei migliori. D’altro canto, la squadra appena retrocessa in terza serie era partita con ben altre ambizioni, ovvero centrare la promozione in Serie A. Per cercare il ritorno nell’eden calcistico nazionale, il Presidente, Cesare Bortolotti, decise di affidare le chiavi della squadra ad un tecnico come Bruno Bolchi, che poteva disporre di una rosa in grado, potenzialmente, di poter centrare la promozione. Ma così, non fu. La squadra si ritrovò immischiata nelle sabbie mobili della bassa classifica, palesando uno spiccato mancato adattamento allo spirito che anima le compagini che lottano per non retrocedere. L’allontanamento di Bolchi in favore di Giulio Corsini, bergamasco ed atalantino doc, non sortì l’effetto sperato: complice un finale di stagione a dir poco disastroso, la Dea piombò in Serie C. L’estate di quel 1981 fu piuttosto agitata in quel di Bergamo. I tifosi chiedevano la testa di Cesare Bortolotti, subentrato al padre Achille nella gestione societaria della squadra.

Bianchi e quel compito, tutt’altro che semplice, di ricompattare l’ambiente dopo la rovinosa caduta in Serie C

Ma il Presidente, pur non essendo immune al clima ostile venutosi a creare, decise di restare al timone della squadra, compiendo una vera e propria rivoluzione. In prima squadra furono promossi due esterni di cui si parlava in toni decisamente positivi: Armando Madonna e, soprattutto, Roberto Donadoni, ai quali vennero affiancati elementi di grande esperienza, anch’essi bergamaschi, come Giovanni Vavassori e Bortolo Mutti. In panchina, invece, si siede un giovane tecnico bresciano, ma che nell’animo è bergamasco ed atalantino fino al midollo: Ottavio Bianchi. Allenatore emergente del calcio nazionale, reduce da una buona stagione a Trieste, Bianchi è chiamato ad un compito tutt’altro che semplice: ricompattare l’ambiente e riportare la Dea immediatamente in Serie B.

Se la rosa, infatti, ha il potenziale per centrare l’obiettivo, il clima in città non è certamente dei migliori. A Ottavio, di conseguenza, spetta l’onere di creare nuovamente un clima di concordia tra squadra, società e tifosi. Per farlo, si affida a quel orgoglio che il popolo bergamasco, ieri come oggi, ha sempre mostrato. Una fierezza delle proprie radici e del concepire la vita come una gioia da raggiungere attraverso il sacrificio.

Lo sbarco a Napoli e il legame, mai sopito, con l’amata Bergamo

Bianchi, ne è consapevole, ha tutto da perdere: se ottiene la promozione in Serie B non avrà fatto altro che il suo dovere, viceversa sarà un fallimento totale, col serio rischio di bloccare una carriera, da allenatore, che sembra in netta ascesa. La stagione, però, lo consacra definitivamente. La sua Atalanta, oltremodo bergamasca nello spirito e nell’animo, domina il campionato e, soprattutto, gioca un calcio gradevole e divertente, esibendo un carattere forte e mai domo. Bianchi, poi, è diventato leggenda. Dopo un altro anno sulla panchina atalantina, chiusa all’ottavo posto in cadetteria, spiccò il volo verso la massima serie, in una piazza ideale per crescere come era Avellino a quei tempi, dove si insediò a campionato in corso. Un buon anno a Como gli valse la chiamata del Napoli di Maradona, con cui instaurò un rapporto tutt’altro che amichevole, che non scalfì, però, l’obiettivo comune: portare lo Scudetto a Napoli.

Obiettivo raggiunto esibendo doti tipiche del popolo bergamasco: orgoglio, indipendenza nelle scelte, voglia di raggiungere il risultato ed un po’ di sana testardaggine, abbinate ad una voglia di lavorare con lealtà e abnegazione. Bianchi, pur essendo nato a Brescia, è un figlio di Bergamo, dove ha scelto di abitare sin dalla prima volta in cui, da calciatore, vestì la maglia della Dea. Correva l’anno 1971: a distanza di quasi cinquanta anni, l’amore tra Bianchi e Bergamo resta reciproco ed immutato.

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