Violenza giovanile

La storia di un giovane bergamasco: «Vi racconto perché sono entrato in una baby gang»

Quando aveva 14 anni, Marco era vessato da un bullo a scuola. Poi tutto è cambiato: «Sceglievamo un posto e la vittima, poi giù botte»

La storia di un giovane bergamasco: «Vi racconto perché sono entrato in una baby gang»
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di Andrea Carullo

Sera tardi, la luna in cielo e soltanto il suono dei propri respiri affannosi nello orecchie mentre si cerca di sfuggire alla polizia. È stato questo per Marco (nome di fantasia), all’epoca appena quattordicenne, il momento di dire basta.

Era uscito con quelli che credeva - o meglio, era convinto lo fossero davvero - dei suoi amici, là dove c’era ancora il panificio Nessi in Porta Nuova. Marco aveva subito capito che le cose non si stavano mettendo bene, a partire dagli sguardi preoccupati dei presenti per arrivare al loro numero, che in pochi minuti aveva continuato a crescere. Stavano occupando il locale in più di venti ragazzi tra i 14 e i 18 anni.

All’improvviso, la situazione subisce un’accelerata. In peggio. Un passante ha la sfortuna di incrociare lo sguardo di uno del gruppo e scatta il finimondo: lo prendono, lo ribaltano su uno dei tavoli e cominciano a picchiarlo, colpevole soltanto di aver “guardato male” uno di loro.

«Me ne vergogno - dichiara oggi Marco, ripercorrendo quella che è stata la sua esperienza di pochi mesi come membro di una baby gang -, a quel tempo ero disperato e non capii subito in cosa mi stessi cacciando. Sono sempre stato un ragazzo timido, un po' introverso, una preda facile: ho sofferto molto di bullismo. Allora c’era un ragazzo che non mi lasciava stare, mi rubava le cose, mi insultava e mi metteva le mani addosso. Avevo paura di andare a scuola, soffrivo dentro e fuori, perché mi ero convinto che, se mi facevo picchiare, era colpa mia perché ero debole. Poi, una persona che conoscevo mi parlò di questo gruppo di ragazzi che si difendevano tra loro».

Ora, luogo e... botte

Ovviamente le cose non erano esattamente così. Ma Marco non sapeva a chi rivolgersi e quel gruppo rappresentò per lui l’unica luce di speranza in fondo al tunnel scuro che si sentiva di percorrere da troppo tempo. Per questo, decise di farne parte: «La persona che conoscevo mi inserì in un gruppo WhatsApp dove c’erano più di 80 iscritti, tutti ragazzi tra i 14 e i 18 anni come me. Erano per la maggior parte di origini straniere, probabilmente anche loro vivevano una situazione di disagio, perché soltanto da quel tipo di contesto ne conseguono certe azioni. Comunque, la finalità di questo gruppo era semplice: si scriveva un nome e un cognome, magari si mandava una foto della persona, si decideva ora e luogo. A quel punto, chi voleva si presentava lì, forte del gruppo, per picchiare chi gli era stato indicato».

È quello che succede al bullo di Marco. Che, il giorno successivo, smette completamente di importunarlo. E qui scatta un’altra trappola di queste tipologie di gruppi: prima la disperazione, poi la gratitudine, l’ammirazione, il sentirsi protetti.

La forza del branco

«All’inizio non ho capito quanto fosse sbagliato - continua Marco -. Era una cosa troppo fresca. Finalmente potevo andare a scuola senza avere paura. Sentivo anche di appartenere a qualcosa, qualcosa che altri conoscevano e di cui avevano paura, nessuno mi avrebbe più toccato se avesse saputo chi avevo alle spalle a proteggermi (...)

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