«Dispiace per dipendenti e clienti»

Chi ha chiuso la Taverna Colleoni

Chi ha chiuso la Taverna Colleoni
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Situato in Piazza Vecchia, il ristorante Colleoni dell’Angelo era il più prestigioso ed elegante della città. Di stile classico, era ospitato in un palazzo dell’XI secolo, ristrutturato in un secondo tempo dal Bramante nel 1477. Già in quel tempo era frequentato dalle più importanti personalità che transitavano da Bergamo. Durante il dominio della Repubblica di Venezia venne utilizzato come residenza del Podestà. All’inizio dell’800, con la dominazione austriaca, venne trasformato in una locanda di prestigio. Tra i suoi ospiti Gaetano Donizetti, Lord Byron ed Herman Hesse. Negli ultimi decenni è stato in parte utilizzato per l’Università di Bergamo, mantenendo comunque al pianterreno il ristorante. La Taverna del Colleoni distribuiva i suoi ottanta posti a sedere in tre sale dalle volte maestose. In quella principale si può ammirare lo splendido affresco del XV secolo detto dei Tosi Martinengo. Per 28 anni è stato gestito da Pierangelo Cornaro, che in questa intervista ci spiega i motivi che hanno portato alla chiusura.

 

 

Signor Cornaro, perché ha chiuso la Taverna del Colleoni?

«La ragione principale è che il budget del ristorante non poteva sopportare l’affitto e tutti gli altri costi sempre più alti. Avremmo dovuto eseguire anche lavori di ristrutturazione per importi per noi impensabili».

Quelle serrande chiuse in Piazza Vecchia sono un colpo al cuore di Bergamo.

«Io mi sono dedicato completamente a questa attività. Ho amici che in questi giorni mi scrivono dall’Australia, dalla Nuova Zelanda, da ogni parte del mondo. Il presidente del gruppo dei ristoratori del Congresso americano mi ha mandato una mail che gh'è de piàns. Scrive: “Se noi avessimo avuto in America un cuoco come lei e un ristorante così, gli avremmo fatto un monumento”».

Invece?

«Invece non mi hanno trattato benissimo. Non chiedevo tanto, almeno un saluto, chiamatemi in banca. Per le trattative hanno mandato avanti dei funzionari, ma non fa niente».

Ubi Banca, la padrona di casa, lo sfratto glielo aveva mandato molti anni fa.

«Più di dieci, ma l’hanno sempre rimandato».

Perché?

«Evidentemente volevano che rimanessi lì. Prima mi hanno concesso un anno, poi sei mesi, infine andavamo avanti di tre mesi in tre mesi».

E come mai ora è arrivato lo stop?

«Perché sono cambiati i dirigenti. Un tempo c’erano i bergamaschi... Ma le banche oggi sono così, al servizio esclusivo degli azionisti».

Lei ha debiti verso la banca?

«Anche se con un po’ di difficoltà, l’affitto l’ho sempre pagato, altrimenti mi avrebbero buttato fuori anni fa. Ma si faceva sempre più dura».

Pagava un affitto stellare?

«No, era un affitto normale. Io spero che trovino qualcuno che subentri, ma sarà dura, perché quel ristorante ha bisogno di interventi strutturali che costeranno un patrimonio. Noi non potevamo accollarci spese così alte».

 

 

Per lei un grande dispiacere.

«Soprattutto perché avevo un’equipe di ragazzi eccezionale, quattordici persone, e lavoravamo tantissimo. I giorni prima di chiudere, il ristorante era pieno di clientela internazionale. Per fortuna i dipendenti me li hanno rubati ancora prima che chiudessi. Scherzo, in realtà ho fatto tre telefonate e sono tutti a posto».

Lei era in Piazza Vecchia dal 1990, 28 anni.

«Nei quali abbiamo sempre lavorato bene. Ho preso il ristorante dalla banca, che allora lo gestiva direttamente. Uno degli accordi non scritti era che venisse mantenuto alto il livello. Se avessi aperto una pizzeria o l’avessi diviso in un bar e bistrò, sarei diventato ricco. Il livello alto richiede personale qualificato e la manodopera in Italia è troppo cara».

In effetti sono molti i ristoranti di prestigio che faticano a resistere.

«I locali storici ancora di più, perché hanno spese di manutenzione altissime e non sono supportati come in altri Paesi. Il Savini è fallito tre volte prima dell’arrivo di Cracco, il Cambio di Torino ha cambiato continuamente gestione. Per offrire un servizio di qualità non basta portare in tavola i piatti».

Non ha tentato con i suoi soci di minoranza di salvare l’impresa?

«Abbiamo predisposto un progetto che secondo noi poteva funzionare, quello di ristrutturare il ristorante e in un’ala aprire un bistrot che proponesse la stessa cucina a prezzi un po’ più bassi, ma gli eventi sono precipitati e non c’è stato il tempo».

Se Ubi vuole mantenerci un ristorante dovrà pure rimetterlo a norma.

«Ma non lo farà più così. Quando l’han dato a me perdevano 500 milioni di lire all’anno, io il primo anno ho fatto un miliardo di lire di incassi. Lo ristruttureranno, ma non credo per lasciarci un ristorante prestigioso».

Oggi funziona la ristorazione media e quello che va di più nel mondo è il prezzo basso.

«Magari non sempre basso, ma più basso di quello che applicavo io».

E lei non aveva pensato di abbassarlo?

«Se abbassi il prezzo devi abbassare la qualità, non ci sono santi. Gli ingredienti sono quelli e il personale è quello».

Mi scusi se insisto, ma com’è possibile che lei non abbia retto proprio nel momento in cui Città Alta si è riempita di turisti?

«Non è un turismo di élite. Voglio dire, un ristorante come il mio aveva una frequentazione che avrebbe avuto anche se Città Alta non si fosse popolata».

Chi si è seduto a tavola da lei?

«Conservo il registro delle personalità importanti. Da Gorbaciov e sua moglie ad Arman, il famoso scultore francese, da Prodi a Benetton, da Marta Marzotto a Briatore. Ho organizzato l’addio al celibato del principe ereditario di Lussemburgo che è diventato il granduca. Ho una raccolta di appunti, se riesco ci...

 

Per leggere l’articolo completo rimandiamo a pagina 6 del BergamoPost cartaceo, in edicola fino a giovedì 7 febbraio. In versione digitale, qui.

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