Nel numero in edicola di BergamoPost

I cinque anni nella polvere che hanno cambiato Doni

I cinque anni nella polvere che hanno cambiato Doni
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Tutta l'intervista la trovate alle pagine 52 e 53 del numero in edicola di BergamoPost.

 

Cristiano Doni era un semi-Dio a Bergamo. Aveva l'amore, aveva il successo, aveva (ha) addirittura le chiavi della città. L'Atalanta era Doni, Doni era l'Atalanta.

Nato a Roma da genitori liguri nel 1973, cresciuto a Verona, ha presto iniziato a girare l'Italia inseguendo un pallone. Poi l'arrivo a Bergamo, dove per la prima volta nella sua vita ha sentito di essere a casa. Questione di indole: per uno che ha sempre dovuto lavorare per conquistarsi uno spazio, i bergamaschi non potevano che essere i migliori compagni di avventura.

Bergamo la sua casa, l'Atalanta la sua famiglia. Qui conquista i Mondiali del 2002 in Core e Giappone, qui si prende la squadra sulle spalle. Il capitano lotta, segna, esulta "a testa alta", retrocede, torna in A.

Poi, nel 2011, il mondo crolla. Crolla per lui, con quell'arresto in una fredda notte di dicembre, e crolla per chi lo ha sempre amato. Pochi, in questi 5 anni, hanno davvero capito che cosa sia successo, se Doni sia davvero un traditore o soltanto una pedina finita sulla scacchiera sbagliata. Oggi, con un processo in corso e tante domande ancora senza risposta, ha deciso di parlare a cuore aperto.

Che fine ha fatto Cristiano Doni?

«È sempre qua, a Bergamo. Abito a Torre Boldone e il numero civico di casa mia, neanche a farlo apposta, è il 27. Sono padre a tempo pieno di Giulia (13 anni) e Lukas (3 anni). Per il resto seguo alcune attività che avevo già avviato prima di smettere, tra cui un locale che ho aperto anni fa a Maiorca».

Si scrisse che lei era scappato in Spagna.

«Ma quando mai. Palma di Maiorca è la mia seconda casa. L'isola mi piace molto, ci ho giocato e ci ho aperto un locale. Dopo lo scandalo ho seguito di persona il progetto, che adesso è ben avviato. Per me è quasi come un altro figlio, che ho visto nascere e crescere. Una bella soddisfazione. Sono anche socio di capitale in altre piccole attività».

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Lei una mattina è apparso sui giornali dipinto come il diavolo e il suo mondo è improvvisamente crollato...

«Sono profondamente amareggiato. Ho dato tanto all'Atalanta e ho ricevuto tantissimo. Il rapporto con la gente era fortissimo e questa frattura è veramente un dolore enorme. Sono convinto però che non si tratti di una frattura scomposta. Nonostante l'opinione pubblica la pensi così, io vivo una realtà quotidiana molto diversa».

[...]

A distanza di tempo ha ritrovato un po' di serenità?

«Credo che la serenità non ci sarà mai più. Mia moglie, ogni tanto, mi dice che io quel giorno sono morto. Ha ragione. Ora le cose sono cambiate, ho mangiato tanta merda e le punizioni sono state tante, ma un po' l'ho assimilata. A volte capita anche di scherzarci sopra e fortunatamente quelli che mi conoscono sono sempre rimasti al mio fianco».

E la città invece?

«L'affetto di Bergamo nei miei confronti è sempre stato grande, sono rimasto a giocare qui a prescindere da tutto. Sono un po' pazzo, tanti mi hanno detto che avrei dovuto andare via, ma sono orgoglioso di essere rimasto. Sia da giocatore che ora da uomo. Ho fatto un Mondiale da atalantino e questa cosa non ha prezzo. Per me l'Atalanta era il Real Madrid».

 

Tutta l'intervista la trovate a pagina 52 e 53 del numero in edicola di BergamoPost.

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