Dopo il Pride

«Sognavo Bergamo arcobaleno, ora l’ho vista: una sorpresa»

«Sognavo Bergamo arcobaleno, ora l’ho vista: una sorpresa»
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Foto ©Bergamopost/Antonio Milesi

 

«Eravamo convinti che non venisse nessuno, ne avevamo una gran paura». Cecilia Riva, 29 anni, assistente sociale di Brembate, «fieramente bergamasca di genitori bergamaschi», è la rappresentate di "Giù la Maschera", uno dei due comitati che hanno promosso il primo Pride a Bergamo. Sabato 19 in centro città hanno sfilato almeno ottomila persone. Un piccolo esercito arcobaleno, altro che “nessuno”. Cecilia ancora non ci crede: «L’abbiamo portata a casa e tuttora non sappiamo come abbiamo fatto».

Dica la verità, Bergamo vi ha sorpreso.
«Evidentemente la nostra paura era frutto di un pregiudizio».

Qui ci sono diverse associazioni omosessuali, è una delle poche città che ha un tavolo permanente contro l’omofobia, molti comuni aderiscono alla rete Re.a.dy contro le discriminazioni di genere. Che paura avevate?
«Bergamo è un città strana. L’unione delle differenze è una risorsa, ma non è così semplice. C’erano già stati cortei contro le Sentinelle in piedi e per lo “Svegliati Italia” prima della legge Cirinnà. Ma poi era calato il silenzio. Il sentimento e l’opinione comune delle persone intorno a noi era: “Avete avuto le unioni civili, ora siete a posto”».

 

 

E invece?
«Non lo siamo affatto. Banalmente, nelle unioni civili io non ho neanche la possibilità di giurare fedeltà, non ho la pensione di reversibilità. Poi c’è il discorso dei bambini, delle famiglie omogenitoriali che non hanno tutela: se la mamma biologica muore, l’altra madre non ha alcun diritto. Servirebbe poi una legge contro l’omofobia, che provoca tanti suicidi fra i ragazzi. Tutto questo è come se fosse stato coperto».

In ogni caso sono arrivate quattro volte le persone previste. Da dove veniva tutta quella gente?
«Venti sono venute da Brescia, altre trenta da Milano. Per il resto non ne ho idea. L’impressione è che ci fossero tantissimi bergamaschi, molte famiglie. C’era anche un asilo coi bambini. C’erano conoscenti che mi han detto: “Non sono i miei diritti, ma devo scendere in piazza perché sono i tuoi”. Speravo che fosse una marcia di tutti e lo è stata».

Come avete reagito a quel mare di persone?
«Stefano, il rappresentante dell’altro comitato, quando siamo scesi dal palco dopo aver parlato davanti a tutta quella gente mi ha guardata e mi ha detto: “Abbiamo fatto una cosa più grande di noi”. Sono i momenti in cui ti rendi conto di essere stata utile».

 

 

Perché, durante la sfilata come si sentiva?
«Se vede le foto del palco, io avevo una faccia triste. Tutti mi dicevano: “Sorridi, ce l’avete fatt a”, ma io non riuscivo. Ero stanca, ma pensavo anche a come ho passato gli ultimi cinque mesi: uscivo dal lavoro a Segrate e correvo a Bergamo per le riunioni e per fare quel maledetto viale Papa Giovanni, con umore sempre diverso, sognando di trovarmelo arcobaleno un giorno. Sabato io ero nel secondo spezzone del corteo. Quando sono arrivata sul viale, mi sono girata e ho visto quella marea di persone. Ho cominciato a piangere. Dovevo fare un discorso dal palco ed ero senza forze. A quel punto sono entrata in modalità assistente sociale e mi sono concentrata sulle cose da fare».

Come avete fatto a farvi conoscere e a raccogliere i fondi necessari?
«Siamo andati negozio per negozio: viale Papa Giovanni, via Pignolo e così via. Ho percorso 25 chilometri a piedi. Ai commercianti lasciavamo una lettera. Io entravo e dicevo: “Ciao, stiamo organizzando il Bergamo Pride, se volete aiutarci queste sono le modalità per una donazione, se non volete o non potete vi chiediamo di mettere fuori il nostro adesivo”. Chiedevamo anche di donarci un loro prodotto per una sottoscrizione a premi e ai bar di fare una convenzione. In via Pignolo, ad esempio, con 6 euro avevi il rustico pugliese più un calice di vino e di quei 6 euro, 1,5 andavano a noi; in Borgo Santa Caterina c’erano 12 shot a 24 euro e 4 erano per noi. Ci siamo finanziati così».

 

 

E dai commercianti come siete stati accolti?
«Molto bene, a parte dal titolare di un bar del centro».

Che ha detto?
«L’ho vissuta sulla mia pelle e non è stato piacevole. Mi son sentita dire che lui “i culattoni e quelli dei centri sociali” li rincorreva con le spranghe e di andarmene da lì perché non ero la benvenuta. Ero con mia cugina. Un episodio isolato, per fortuna».

Ma di preciso, per che cosa avete sfilato?
«Personalmente, ho sfilato per me e per tutte le persone che non sono potute o non hanno voluto essere lì».

Può chiarire meglio?
«Ho sfilato per me Cecilia, per me donna lesbica, per me assistente sociale. Il fatto che il...»

 

Per leggere l’articolo completo rimandiamo a pagina 5 di Bergamopost cartaceo, in edicola fino a giovedì 31 maggio. In versione digitale, qui.

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