Con la celeberrima a Playboy

David Bowie racconta David Bowie (Raccolta delle interviste più belle)

David Bowie racconta David Bowie (Raccolta delle interviste più belle)
Pubblicato:
Aggiornato:

Uno, nessuno, centomila. Il trasformismo che ha caratterizzato il personaggio e la produzione artistica di David Bowie è lo stesso che emerge dall’immagine che offre di sé in occasione delle sue interviste. Nel periodo della Golden Age, il magico decennio dei Settanta, di fronte ai giornalisti Bowie è alternativamente laconico e verboso, affabile e sgarbato, ragionevole e provocatorio. Rockstar irriverente che si prende gioco di tutti o genio delle pubbliche relazioni? Probabilmente entrambe le cose.

«Incredibile». Era il 22 gennaio del 1972, quando il Melody Maker, il settimanale di musica più antico al mondo, intervistava un Bowie appena venticinquenne, ma già alla registrazione del suo quarto album. Il giornalista, Michael Watts, lo descrive pieno di fascino. «Si muoveva elegantemente in una specie di tuta da combattimento (…). I pantaloni arrotolati alle caviglie permettevano di intravedere meglio un enorme paio di stivali di plastica rossi con almeno tre pollici di suola di gomma e i capelli erano sistemati in modo cosi impeccabile che veniva da trattenere il respiro nell'eventualità che una leggera brezza dalla finestra aperta osasse scompigliarli. Mi sarebbe piaciuto che foste lì a vederlo: era incredibile».

 

 

«Diventerò famosissimo». Era l’indomani dell’uscita di Hunky Dory, l’album che, a detta qualcuno, conteneva un indiretto riferimento ad un homo superior («Penso a un mondo che verrà / dove i libri saranno scoperti dagli Esseri Dorati / scritti nella paura, scritti nel timore / da un uomo sconcertato che si chiede perché siamo qui. Oh, oggi arrivano gli Stranieri, e sembra che siano qui per restarci»). Pochi mesi prima della pubblicazione del capolavoro che lo consacrerà come un mito (The Rise and Fall of Ziggy Stardust and The Spiders from Mars), «diventerò famosissimo» disse distrattamente un Bowie che, più che un cantante, pare una sibilla. E dire che le cose al momento non gli andavano ancora benissimo, soprattutto nel suo paese, l’Inghilterra.

«Non sono immorale. Sono David Bowie». Ad una battuta sul suo abbigliamento stravagante e androgino, risponde con l’interpretazione di una gloriosa drag queen: «Sono proprio uno screanzato cosmico. Ho sempre indossato gli abiti che andavano bene a me (…). Non mi piacciono per niente i vestiti che compri nei negozi. E non porto neppure sempre lo stesso vestito. Li cambio ogni giorno. Non sono immorale. Sono David Bowie».

«Un’allegria maliziosa». Questo ragazzo «festosamente effeminato» continua: «Sono gay e lo sono sempre stato». Ma il giornalista è il primo a dubitarne, cogliendo nella sua affermazione «un'allegria maliziosa (…), un sorriso nascosto agli angoli della bocca». Michael Watts è il primo a divertirsi di fronte a questa pantomima che, all’epoca, non aveva quasi più nulla di oltraggioso. Risultava piuttosto divertente perché «l'espressione della sua ambivalenza sessuale propone un gioco affascinante: lo è o non lo è?».

 

La celeberrima intervista per Playboy

playboy976 Rolling Stone

Era il settembre del 1976, invece, quando David Bowie rilasciava una celeberrima e spregiudicata intervista per Playboy. A fargli domande un giovane che collaborava anche con Rolling Stone e a cui il destino riservava un futuro da regista, Cameron Crowe (per esempio di Jerry Maguire, Vanilla Sky o Quasi famosi). L’intervista venne pubblicata con una prefazione del giornale, che introduceva Bowie come uno uomo disposto a tutto pur di preservare il suo successo ormai allo Zenith, «un calcolato manipolatore dei mass-media, privo di qualsiasi senso di tatto o di intimidazione. La sua carriera, eclettica e bizzarra, non (aveva) che un obiettivo: catturare l'attenzione del pubblico».

«Non voglio più essere un inutile cantante rock». Del resto, il cantante ne aveva già combinate di ogni, non ultime due plateali dichiarazioni di uscita di scena alla Houdini. «È una noiosa strada senza uscita. Non farò più dischi di rock'n'roll né tournée. Non voglio più essere un inutile, fottuto cantante di rock», disse ad esempio nell’aprile del 1975 nel corso di un’intervista via satellite con il più popolare giornalista inglese dell’epoca , Russell Hurt. Divertente che nel frattempo il governo spagnolo stesse insistendo per usare il satellite al fine di comunicare la morte del generalissimo Franco. Bowie si rifiutava però di concedere la linea.

«Un arrogante superdio». Definito dopo The Rise and Fall of Ziggy Stardust and The Spiders from Mars, «il più grande avvenimento dopo i Beatles», Playboy si convinse a seguire questo «arrogante superdio» in quella che lui stesso chiamava «la crociata per la conquista del mondo». Dell’intervista si propongono solo le sezioni che fecero più clamore, quelle indimenticabili: riflettono l’intenzione premeditata di uno scaltro uomo di successo che sapeva cosa i giornalisti volevano che dicesse. «La verità che ne scaturisce non può che essere incoerente».

 

https://youtu.be/Tgcc5V9Hu3g

 

Cominciamo con la domanda che ho l'impressione lei cerchi di evitare: in che misura la sua bisessualità è una realtà e in che misura è un trucco?
È vero, sono bisessuale. Non posso però negare di avere sfruttato questo fatto molto bene. Penso che sia la cosa migliore che mi sia mai successa. E anche divertente.

Ma quanto di tutto ciò dovremmo credere? La sua precedente agente, la famosa Cherry Vanilla, sostiene di avere dormito con lei e che lei non è affatto omosessuale, ma che le piace far pensare che le piacciono gli uomini.
Mi piacerebbe proprio conoscere quest'impostore di cui parla Cherry, ma di sicuro non sono io. Comunque è una bella citazione. Cherry è abile quasi quanto me nell'usare i mass-media.

Ma lei non fa fatica a convincere gli altri a crederle? Prendiamo, per esempio, i suoi molto pubblicizzati addii al mondo dello spettacolo. Lei si è ritirato due volte, giurando che non avrebbe mai avuto più niente a che fare col rock'n'roll. Eppure ha appena terminato una tournée di sei mesi per lanciare il suo recentissimo album Station to Station. Come spiega queste contraddizioni?
Semplicissimo, dico bugie. È facilissimo da fare. Non c'è niente che abbia importanza eccetto quello che io sto facendo in quel dato momento. Non posso certo ricordarmi tutto quello che dico. Non me ne frega niente. Né posso ricordarmi quanto ci credo e quanto non ci credo. L'unica cosa che mi importa è di crescere come persona. Non ho la minima idea di cosa sarò l'anno venturo: un pazzo scatenato, un figlio dei fiori, un dittatore o un reverendo, chi lo sa. E questo è quel che mi impedisce di annoiarmi.

Qualcuno la potrebbe interpretare (una frase di una sua canzone a proposito di cocaina) come una difesa dell'eroina. È forse questo il messaggio? 
Io non ho messaggi di nessun tipo. Non ho veramente nulla da dire, né suggerimenti o consigli da dare. Mi limito a dare qualche idea che costringa la gente ad ascoltarmi ancora per un po'. Ma alla fine sono loro a trovare il messaggio e così mi risparmiano la fatica. Tutta la mia carriera è stata così; posso sempre fare quel che voglio senza che mi succeda mai nulla.

Visto che si mette al primo posto, si considera un pensatore originale?
No, nel modo più assoluto. Piuttosto sono un ladro di buon gusto. La sola arte che mi va di studiare è quella da cui posso portare via qualcosa. Ma penso che il mio plagio dia buoni frutti. Perché un artista crea? Io la vedo così, se uno inventa qualcosa lo fa con la speranza che la gente usi la sua invenzione. E l'arte dovrebbe essere altrettanto pratica. L'arte può essere un riferimento politico, una forza sessuale, qualsiasi tipo di forza, ma si deve poterla usare (...). Mick Jagger, per esempio, ha paura di entrare nella stessa stanza in cui ci sono io, se sta anche solo pensando una nuova idea. Sa benissimo che gliela porterei via subito (...). Nel nostro mestiere non si può che essere bastardi.

Lei ha dichiarato più volte di credere nel fascismo. Eppure sostiene anche di voler diventare primo ministro d'Inghilterra: è forse un'altra sua manipolazione dei mass-media?
Mio Dio, ma tutto è manipolazione dei mass-media. Certo vorrei fare della politica e un giorno la farò senz'altro. Mi piacerebbe moltissimo essere primo ministro. Ma è anche vero che credo fermamente nel fascismo. Il solo modo che abbiamo per vivificare questa specie di liberalismo ristagnante è di accelerare l'avvento di una tirannia di destra che sia totalmente dittatoriale. La gente diventa molto più efficiente se sottoposta a un regime. E io non sopporto la gente che perde tempo. La televisione, credo che non ci sia bisogno di dirlo, è la cosa più fascista che ci sia. Anche i divi del rock sono fascisti. E Hitler è stato uno dei primi divi del rock.

Incalzato, in seguito, a rendere conto di una tale affermazione quanto meno sconcertante, dichiarerà alla rivista Ciao2001 nel marzo del 1976: «Non mi ricordo cosa dissi. Ma la vita politica mi interessa. Quando tornerò in Inghilterra vorrò dare uno sguardo in giro, vedere cosa si può fare. Da vero capricorno ho ancora in me quel complesso da gran re e poi la politica è la più grande forma d’arte (…). Il veicolo politico ti dà un’idea di quanto puoi estendere il tuo ego al di fuori del corpo. Sto cercando di fare di me stesso “il messaggio” (…)». O ancora nel novembre del 1977, in una famosa conferenza stampa tenutasi in Italia dopo l’uscita dell’album Heroes: «Tutte le dichiarazioni da me fatte sono degli avvertimenti teatrali. lo sono completamente apartitico».

 

 

«Se funziona, gettala via!». Nei giorni immediatamente, seguì un’altra intervista per Rockstar, da cui emerge una faccia di Bowie diversa, tanto dall’aspirante rockstar bruciante di ambizione, quanto dal divo dall’ego strabordante. Un Bowie più autentico, opportuno e premuroso col suo interlocutore. O forse solo un altra delle mille sembianze del camaleonte. Fu quella l’occasione a cui risale la famosa affermazione «Se funziona, gettala via!». Spiegò trattarsi di un tipo di «approccio cibernetico: anche se il tuo cuore rimane legato emotivamente, devi continuare a cambiare». Oltre naturalmente all’excursus sulla sua produzione, sulle nuove collaborazioni e sul neonato approccio alla musica elettronica, questa fu uno di quei momenti in cui Bowie spiegò il suo rapporto con la vita, l’arte e se stesso. Una scelta fatta nel nome del cambiamento, della continua sperimentazione, di nuovi modi di raccontare e di capirsi. Non più ambizione, ma genuina ricerca artistica, perché «se le cose sono troppo facili o tranquille, io mi sento in una situazione pericolosa». In questo senso può considerarsi il brano Changes (1971) il suo manifesto artistico ed esistenziale: «Cambiamenti / Girati e affronta lo straniero / Cambiamenti / Non voglio essere un uomo ricchissimo / Cambiamenti / Devo solamente essere un uomo diverso / Il tempo forse mi cambierà / Ma non posso tracciare il tempo».

Seguici sui nostri canali