Personaggi orobici

L’eroe di guerra morto 72 anni dopo la condanna a morte

L’eroe di guerra morto 72 anni dopo la condanna a morte
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Quella del trentino Bruno Leonardi, che ha vissuto per oltre trent’anni in Malpensata ed è scomparso sabato 11 novembre all’età di novantaquattro anni, potrebbe essere la storia qualunque di un pensionato qualunque, abitata da una moglie bergamasca che se n’è andata solo qualche anno prima di lui, tre figli ormai adulti che coltivano le proprie realizzazioni, e un’azienda bergamasca che si è fatta grande grazie al suo sudore, per poi essere messa in vendita.

In realtà, i piani erano ben diversi. Bruno avrebbe dovuto lasciare questa terra molto tempo fa, precisamente il 2 maggio del 1945. Almeno così recitava la condanna a morte che fu costretto a firmare il 18 aprile dello stesso anno. «Il mio capitano mi convinse a firmare minacciando che altrimenti ci sarebbero stati provvedimenti immediati» scrive nel suo libro Eroi senza luce, che ha pubblicato per raccogliere le memorie di quella sua, personale, Seconda Guerra Mondiale. «Da quel giorno ho continuato a chiedermi quanto tempo sarebbe passato fra la sentenza e l’esecuzione. Stavo vivendo gli ultimi giorni della mia vita senza sapere perché. Non ho mai conosciuto per esteso la denuncia che fu presentata contro di me, quale fosse la mia colpa. Controllavo con ossessione la porta della cella, temevo si aprisse per l’ultima volta».

La colpa di Bruno, impiegato come militare sullo sfondo della guerra civile italiana, è quella di voler essere mediatore tra i partigiani e il Cst, corpo di sicurezza trentino. «Il suo desiderio era quello di evitare che nessuna delle due fazioni compisse rappresaglie, in cui sarebbero stati coinvolti anche civili innocenti - spiegano i figli Enrico e Maria - Per questo incontrò in un albergo il capo dei partigiani, e uno dei suoi fece la soffiata. Lo aveva tradito, lo aveva denunciato come spia». Quelle ore passate in carcere offrono a Bruno l’occasione di escogitare un piano di fuga, poiché sa che il corteo sarebbe partito dalle carceri alle 4 del mattino, per giungere alla caserma. Sa inoltre che ci sarebbero stati un carro funebre, un frate, dieci uomini della polizia trentina e un sottufficiale tedesco. «Una volta giunto al fiume Fersina, sarei saltato in acqua, nuotando quel tanto che sarebbe bastato per allontanarmi. Quindi sarei risalito e di corsa avrei raggiunto il grande fiume, e avrei avuto salva la vita: due fatti, però, dovevano giocare a mio favore: che nella Fersina ci fosse abbastanza acqua e che i militari del Cst, costretti a spararmi, mirassero l’aria, favorendo la mia fuga».

Non è dato di sapere come si sarebbe concluso il folle piano, perché la Liberazione, anticipa i tempi. La guerra prosegue, ma cominciano a circolare con una certa insistenza voci sulla fine imminente del conflitto. Viene così organizzata l’insurrezione di Trento, e proprio quel 2 maggio un bengala esplode in cielo e lancia il via per la liberazione ufficiale della città. Il destino di Bruno si mescola a quello di migliaia di altri uomini disperati e tramortiti, e nell’euforia generale, la sua condanna a morte viene per sempre abbandonata tra le cose che non possiedono più un briciolo di valore. Riesce a ricominciare la sua vita, riafferrandola laddove era scivolata prima che la guerra lo sorprendesse poco meno che diciottenne, per costringerlo a vivere da prigioniero dei tedeschi prima e da militare della polizia trentina poi.

Ma il senso di quegli anni non l’ha mai dimenticato, e ha immortalato l’umanità risucchiata da quei drammi nelle pagine del suo libro: «Il mio amico Franz, il soldato tedesco a cui ero stato assegnato durante la mia prigionia - scrive - non era antinazista, ma nemmeno simpatizzante. Aspettava anche lui con ansia la fine della guerra per ritornare nella sua Berlino, dove lo aspettavano la moglie e due bambini. L’affetto che provavo per lui era grande, avevo...»

 

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