Musicista d'eccezione

Dodi Battaglia, la chitarra dei Pooh «A Bergamo devo la mia carriera»

Dodi Battaglia, la chitarra dei Pooh «A Bergamo devo la mia carriera»
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Dodi è il nome d’arte di Donato Battaglia nato il 1° giugno 1951. «Sono venuto al mondo in casa - racconta il musicista -, perché due sorelle di mio padre e una sua zia facevano le ostetriche». Papà faceva il rappresentante d’olio e come seconda attività suonava il violino. A quattro anni a Dodi regalarono una fisarmonica. La sua prima chitarra la chiese a tredici anni, dopo aver ascoltato Atlantis degli Shadows dal juke box di un bar. A quattordici anni formò il primo gruppo, i Nobles. Poi i Rigidi e i Judas. Quindi entrò nei Meteors, il primo gruppo serio e poi nei Pooh. Ha suonato con il gotha dei cantautori e degli interpreti italiani, tra i quali: Gino Paoli, Zucchero, Vasco Rossi, Enrico Ruggeri, Mia Martini. E ha persino composto la musica de Il pianeta Grabov, in concorso alla 47^ edizione de Lo Zecchino d’Oro. È considerato tra i migliori chitarristi al mondo. I suoi riferimenti sono Jimi Hendrix, Al Dimeola, John McLaughlin e Paco De Lucia. Ha una cinquantina di chitarre, da una delle quali, dice, «non mi stacco mai. Spesso la porto a letto con me». Tre famosi marchi, Fender, Maton e l’italiana Armas, hanno realizzato modelli di sei corde su sue specifiche indicazioni. Adora la musica di Ciaikovskij, Ennio Morricone e dei Beatles. Ha una passione smisurata per le automobili. Tra le sue preferite, Porsche 911 Turbo, Maggiolino Volkswagen cabrio 1^ serie e BMW M3. Ha corso con Giorgio Faletti per almeno una ventina d’anni nella categoria Turismo. Lasciata l’attività agonistica, ogni tanto si diletta a correre per beneficenza in go-kart. Tra i film preferiti, L’altra faccia dell’amore di Ken Russell, Braveheart di Mel Gibson, Riusciranno i nostri eroi... di Ettore Scola. Tra i libri, L’ultima legione di Valerio Massimo Manfredi, Gomorra di Roberto Saviano e Io uccido di Giorgio Faletti. La vita privata è stata un po’... movimentata e intensa. Si è sposato tre volte e ha avuto quattro figli: Sara, Serena, Daniele e Sofia. È stato il primo dei Pooh a diventare nonno. Nel 2009 è nata Victoria, figlia di Sara.

 

Dodi Battaglia da Bologna, la chitarra dei Pooh, il musicista che l’autorevole periodico tedesco Stern ha definito “il miglior chitarrista d’Europa”, lo strumentista la cui tecnica è oggetto di studio nelle Scuole di Musica, l’unico solista italiano ad aver suonato in duo con mostri sacri come Tommy Emanuel e Al Di Meola. L’ex studente di fisarmonica che negli ultimi sette mesi ha conseguito il Diploma Accademico Honoris Causa di secondo livello in Chitarra elettrica jazz presso il Conservatorio di Matera. E la laurea magistrale in Storia della Musica pop italiana con la concessione della lode presso l’Università degli Studi di Bari. E a tempo perso, pilota Gran Turismo che proprio qualche settimana fa si è visto consegnare da Autosprint il “Casco d’oro”, una delle onorificenze più ambite a livello internazionale dell’automobilismo sportivo. Dodi stasera suona al Druso di Redona con il suo gruppo. «Nelle definizioni che ha dato di me - ci fa notare Battaglia, 66 anni, ma ne dimostra almeno 10 di meno e un cuore grande così -, manca quella più importante: il chitarrista che deve la sua carriera a questa città».

 

 

Ci sarei arrivato, Dodi.
«Come diceva un grande emiliano, Enzo Biagi, sono entrato in quella fase in cui forse si pensa più a ieri che a domani, insomma in cui i ricordi prendono sempre più piede nella vita di un uomo. Il mio rapporto con Bergamo nasce in un clima da Albero degli zoccoli, sembrava davvero di stare sul set del film di Ermanno Olmi, capisce. Rivedo quando, senza il becco di un quattrino in tasca, Robi, Riccardo, Valerio e io ce ne stavamo ad Astino a mettere giù le idee di quelli che sono diventati i pezzi storici dei Pooh. Dormivamo in questa cascina, nell’aia gli animali da fattoria. La mamma di Robi preparava polenta e latte e l’arrosto di coniglio. In quel periodo ci vide Roberto Carlos e volle ingaggiarci come gruppo che lo accompagnasse. Ad Astino facemmo le prove del tour; questo accadeva ancora prima che lanciassimo Tanta voglia di lei. Per me Bergamo è questo, è una parte di me, è una materia che si muove nelle viscere».

Poi i soldi sono arrivati, tanto che ha potuto permettersi un hobby molto costoso: quello di pilota Gran Turismo.
«E anche qui c’entra Bergamo. Ho corso nel team Muratti della Coppa Renault 5. Tra i piloti c’era Giancarlo Xella, un bergamasco amante della bella vita e per certi versi geniale. Xella allora era il pilota di punta della squadra. A Bergamo, nella vita di tutti i giorni, era un conosciuto e apprezzato imprenditore di finiture per interni. Ricordo che scherzosamente lo chiamavano “il re dei pavimenti”, quelli più belli... e più cari. Qualche volta ci si vedeva a cena a casa di Giancarlo con Miguel Bosé, il manager dei Pooh Maurizio Salvadori e altri piloti della Coppa Renault. Con Giancarlo era sempre uno spasso».

 

 

Quando i Pooh sono diventati una vera e propria azienda itinerante, avete preso un capannone a Grassobbio.
«Esatto. Una struttura molto grande, persa tra i campi della Bergamasca dove noi tenevamo gli strumenti e le attrezzature. D’inverno c’era una nebbia che potevi tagliare col coltello. Lì dentro provavamo i nostri concerti con tutti gli artifici tecnologici di cui disponevamo. Alla parte logistica e organizzativa, con noi ha sempre lavorato “Dumbo”, un altro bergamasco doc che ancora oggi ci dà una mano, nel senso che stasera al Druso sarà lì con la sua generosità, la sua disponibilità, il suo proverbiale modo di non lasciare mai solo l’artista».

Davanti al capannone c’era un ristorante ricavato da una vecchia cascina. I pranzi di lavoro li facevate lì.
«C’è ancora quel ristorante. Ricordo i titolari Fedele e Teresa. Nei giorni di prova, ci piaceva andare a mangiare lì. Ci aspettavano e, una volta seduti, manco c’era bisogno di ordinare perché loro sapevano cosa portare a noi quattro e ai nostri tecnici, che abbiamo sempre tenuto a tavola con noi nel rispetto del loro lavoro tanto oscuro quanto determinante. Ricordo che all’ingresso c’erano le solite 20-30 persone che ci aspettavano con le quali non c’era più il rapporto che si instaura tra un musicista e i suoi fan, ma un vero legame d’amicizia. Ricordo i concerti a Bergamo che per tutti noi avevano un sapore diverso da quelli tenuti in altre città, forse per l’appartenenza del pubblico a Robi, uno di loro, a Stefano che aveva preso casa a Treviolo, a Red che a sua volta si era...»

 

Per leggere l’articolo completo rimandiamo a pagina 5 di Bergamopost cartaceo, in edicola fino a giovedì 8 febbraio. In versione digitale, qui.

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