È morto a 86 anni

Il testamento spirituale di Olmi

Il testamento spirituale di Olmi
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Il suo titolo più bello è forse l’ultimo, L’apocalisse è un lieto fine. Storie della mia vita e del nostro futuro. Non è un film, ma un racconto autobiografico, un libro che è in ogni senso il suo testamento. Ermanno Olmi lo pubblicò tre anni fa, avendo in testa una preoccupazione precisa, che non ha nulla a che vedere con l’autocelebrazione. È piuttosto la narrazione di una ferita, quella che ha segnato la sua vita di testimone di una drammatica transizione, quella da un mondo umano a uno profondamente a rischio di disumanità.

Ermanno Olmi non era un nostalgico di un passato perduto. E non era un profeta di sventura. Era un uomo profondamente ottimista perché innamorato di quel mondo che aveva conosciuto e sperimentato, narrandolo in quel suo capolavoro di quarant'anni fa, L’albero degli zoccoli. Nel titolo di quel libro ci sono infatti due parole che dicono tanto di lui: “lieto fine” e “futuro”. «Ho sempre messo in atto le mie facoltà critiche confrontando quotidianamente il mio pensiero con la mia vita vissuta», aveva detto in occasione della presentazione del libro. In quest'ottica tutti i libri del mondo non valgono quanto l’amicizia con un amico che ci apre il cuore e racconta sé stesso e i suoi cambiamenti nel corso degli anni. Questa è la conoscenza vera dell'animo umano e con tale principio guida ho scritto la mia biografia».

 

 

Era bergamasco, e tale è rimasto per tutta la sua vita, anche se per una lunga stagione di formazione si è legato a Milano e poi ha scelto come terra del destino l’altopiano di Asiago, una terra condivisa con il grande amico Mario Rigoni Stern. In questo suo percorso Olmi ha aperto l'obiettivo su tutti i grandi temi della nostra epoca, con quel suo sguardo originale e mai scontato, che nessuno riusciva a rinchiudere in una casella. Era uno sguardo che sfuggiva a tutte le semplificazioni grazie alla poesia che lo contraddistingueva. La poesia di Ermanno Olmi aveva il suo cuore in una convinzione che non l’ha mai lasciato: che la salvezza (e quindi il futuro) dell’uomo sta solo nella sua capacità di recuperare una semplicità perduta. Di qui il suo amore sconfinato per la terra. Ma non per la terra tout court, solo per la terra lavorata dall’uomo. La bellezza di un campo coltivato o di un filare di vigne per lui era degli indicatori di civiltà. Oggi quel patto tra uomo e natura è un patto infranto: per questo, diceva, viviamo una stagione da apocalisse.

Ma il cuore di Ermanno Olmi non riusciva mai ad arrendersi al fatalismo. E per non arrendersi ha trovato un prezioso e insostituibile alleato nel cinema. Il cinema come forma di narrazione e di concretizzazione di quella speranza che lo sospingeva. Non era un cinema ideologico il suo. Diceva che un film nasceva sempre da un innamoramento, non da una tesi. Così sullo schermo ricreava mondi capaci di conquistare i nostri cuori e di rendere plausibili quelle che altrimenti considereremmo solo belle utopie. «Un mio vecchio amico sacerdote un giorno mi disse: “Attenti alle utopie, qualche volta diventano reali”. Non temo di essere considerato un sentimentale, io sono un uomo di sentimenti, il che è diverso».

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