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LeBron James, il ritorno del re

LeBron James, il ritorno del re
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LeBron James è un giocatore professionista che milita nella NBA, massima lega americana di pallacanestro; è nato il 30 dicembre 1984 ad Akron, in Ohio, ed è alto 2.03 metri per 113 kg. Nonostante abbia solo 29 anni, nei suoi dieci anni di NBA è stato eletto quattro volte MVP della stagione (MVP sta per Most Valuable Player, premio annuale assegnato al giocatore migliore della lega nella stagione regolare); ha vinto due titoli indossando la maglia dei Miami Heat (2012, 2013) e ha partecipato a dieci (…dicasi dieci) All-Star Game, la leggendaria sfida annuale fra molti dei più forti giocatori del mondo. Come se non bastasse, ha conquistato un bronzo (2004, Atene) e due ori olimpici (Pechino, 2008; Londra, 2012), trascinando in più di un’occasione la nazionale statunitense al trionfo. Nella classifica di Forbes dei cento atleti che nel 2012 hanno avuto più introiti si è classificato quarto, con 59,8 milioni di dollari, dietro a Tiger Woods, Roger Federer e al suo collega Kobe Bryant. È il volto pubblicitario di aziende del calibro di Nike, McDonald’s e Samsung, e grazie ad una personalità fuori dal comune è – fin da giovanissimo – una delle icone più importanti dello sport americano contemporaneo.
È da molti considerato il più forte giocatore di pallacanestro in attività. In campo, LeBron può permettersi di giocare in tutti e cinque i ruoli del basket. Un servizio di Sport Science, programma americano in onda sulla rete ESPN, ha analizzato scientificamente il suo incredibile fisico. Il "re" corre i 30mt in meno di 4 secondi ed è in grado di raggiungere una velocità superiore a 32km/h. Da fermo salta circa 80cm. Quando fa un passaggio, la palla gli esce dalle mani in un tempo di 0.18 secondi e raggiunge una velocità di 64km/h (sessantaquattro chilometri orari!). Ha battuto una miriade di record in qualità di “giocatore più giovane a”: più giovane a venir selezionato come prima scelta assoluta (18 anni), a vincere un premio di matricola dell’anno (19), a segnare 30 e 40 punti in una partita (18, 19), ad entrare nel team dei cinque più forti giocatori della lega (21), a vincere un MVP (sempre 21), a vincerne quattro (28), a segnare 4000 punti durante i playoff (29), le fasi finali del campionato. Ogni anno il suo gioco migliora sotto diversi punti di vista e basta dare un’occhiata alle statistiche per rendersene conto.

 

 

LeBron nasce ad Akron, nella parte settentrionale dell’Ohio, a 62km da Cleveland. L’Ohio è forse uno dei più brutti tra gli Stati degli U.S.A., tanto che Cleveland, la città più importante dello Stato, si è meritata la definizione di “the mistake by the lake” (cioè “l’errore sul lago,” poiché è situata sulla sponda sud del lago Eire). Città politicamente in controtendenza rispetto al resto dello Stato (è prevalentemente democratica), dopo il boom economico della Seconda Guerra Mondiale, grazie anche all’industria dell’acciaio, e il successivo lento declino iniziato già negli anni ’60, anche dal punto di vista sportivo si è conquistata l’immagine di una città perdente. Cleveland non vince un trofeo in uno dei tre sport più importanti a livello nazionale (baseball, football e basket) dal 1964. Proprio per questo sulla città si dice aleggi una maledizione – ESPN nel 2004 l’ha definita la più torturata città del Paese, sportivamente parlando.

La madre di James, Gloria Marie, dà alla luce LeBron all’età di 16 anni. La domanda sull’identità del padre resta tutt’oggi irrisolta: Gloria non l’ha mai rivelata. Madre e figlio si spostano in continuazione senza la sicurezza di un lavoro stabile. Il bambino viene affidato allora alla famiglia di Frank Walker, un allenatore locale di football, che lo inizierà al gioco della pallacanestro all’età di nove anni. La prima squadra di LeBron, l’Amateur Athletic Union, raggiunge grazie a lui ottimi traguardi a livello nazionale. Negli anni delle scuole superiori, LBJ decide di giocare a pallacanestro per St.Vincent-St Mary High School, una scuola privata di Akron. Fin dal primo anno ottiene una notorietà eccezionale grazie alle impressionanti prestazioni sul parquet, tanto da apparire sulle copertine di Sport Illustrated e SLAM Magazine. Sport Illustrated gli affibia un soprannome particolarmente significativo: the chosen one, il prescelto. James comincia ad essere oggetto d’attenzione speciale: le sue partite finiscono persino in diretta nazionale. Al termine delle scuole superiori viene chiamato ai piani alti: è uno dei pochissimi giocatori NBA a saltare il college ed entrare direttamente nella lega, dove nel 2003 è selezionato come prima scelta assoluta dai Cavaliers e si trasferisce a Cleveland, diventando una speranza per l’intero Stato dell’Ohio e per risollevare l’immagine di una città in declino.

LeBron si ferma a Cleveland sette anni, impressionando tutti per prestazioni e carisma. Si diffonde il suo soprannome più importante: The King, il Re. La sua maglietta ha un numero che pesa tantissimo nel basket: il 23, lo stesso numero di Michael Jordan, sei volte campione NBA negli anni Novanta e a detta di molti miglior giocatore di pallacanestro mai esistito. Prima di ogni partita, LeBron è solito approcciarsi al tavolo dei commentatori, spargersi un po’ di talco sulle mani e soffiarlo in aria sotto gli occhi del pubblico. In città enormi cartelloni pubblicitari lo ritraggono a mani aperte, a fianco una scritta in bianco su nero: We Are All Witnesses. Siamo tutti testimoni. Cleveland lo ama, il resto d’America un po’ meno. In campo domina, ma la pallacanestro non è uno sport individuale.

A questo punto qualcosa va storto. Nel 2007 riesce a portare Cleveland in finale, ma la cocente sconfitta con gli Spurs di Tim Duncan gli fa pensare che forse la maledizione è più forte di lui. Sulle sue spalle la pressione aumenta di anno in anno. Ci riproverà (senza successo) fino alla fine del contratto, nel 2010, quando invece che rinnovare con i Cavaliers annuncerà in diretta nazionale l’intenzione di “portare il suo talento” a Miami, in Florida, dove giocherà con Dwyane Wade e Chris Bosh, due tra i migliori giocatori della lega. Cambierà in 6 il suo numero di maglia. Alla presentazione ufficiale afferma di voler vincere parecchi titoli NBA con i Miami Heat. A Cleveland (e in generale negli Stati Uniti al di fuori della Florida) non la mandano giù particolarmente bene. La rabbia è fortissima, tanto che le sue magliette vengono bruciate nelle strade. L’economia e lo sport della città ne escono molto danneggiati. Se con LeBron i Cavs erano entrati nelle fasi finali classificandosi primi nella stagione regolare 2009-10, l’anno successivo arrivano ultimi con il più grande sbalzo nel rapporto vittorie-sconfitte mai registratosi nella lega.

Nel 2011, LeBron porta Miami in finale e ha addosso gli occhi del mondo. L’avversaria è Dallas, squadra con un’età media abbastanza alta che tuttavia impressiona per la fluidità del sistema di gioco. Dallas arriva alla finale con il dente avvelenato perché nel 2006 il titolo le era stato sottratto proprio dalla Miami di Wade. La pressione psicologica schiaccia LeBron, che ne esce completamente tramortito: Dallas è campione NBA; LeBron, alla sua seconda finale in otto anni, è di nuovo sconfitto e viene attaccato pesantemente da media e pubblico, tanto che ironicamente diventa una moda sostenere di avere lo stesso numero di anelli di James (il titolo NBA è comunemente chiamato Anello perché ai vincitori viene dato un anello distintivo). Pare che James abbia passato dieci giorni in una stanza senza voler veder nessuno dopo quelle finali.

L’anno seguente torna, e torna cambiato. È più solido: abbandona alcuni atteggiamenti da sbruffone e ha uno sguardo più maturo, il suo gioco è meno individualistico. Fin dal principio è tangibile la sensazione che possa vincere, e così sarà. Alle finali del 2012 Miami batte gli Oklahoma City Thunder e James, incoronato miglior giocatore delle finali, vince il suo primo titolo NBA. Qualche settimana dopo, a Londra, trascina l’America alla medaglia olimpica nella pallacanestro. Sport Illustrated lo nomina sportivo dell’anno. L’anno successivo la storia si ripete: Miami batte i San Antonio Spurs in una delle serie finali più avvincenti degli ultimi anni, con LeBron che realizza 37 punti nella gara decisiva. Grazie a prestazioni impressionanti durante tutte le fasi finali, LeBron riscatta la sua immagine nazionale di loser (perdente) e dimostra di valere i soprannomi assegnatigli al suo ingresso nella lega. Gli Spurs tornano alle finali di quest’anno con un’enorme voglia di rivincita, e grazie anche alle prestazioni dell’italiano Marco Belinelli vincono il titolo battendo Miami 4-1 nella serie finale.

 


La squadra che ha incendiato la Florida nelle due stagioni precedenti sembra aver perso il suo smalto. E LeBron, durante l’estate, ha la possibilità di rescindere il contratto con gli Heat e diventare reclutabile da un’altra squadra, anche se tutti (o quasi) si aspettano che la sua volontà sia quella di rinnovare con Miami per un altro anno almeno. Ed è qui che, con tempi cinematografici perfetti, LeBron stupisce di nuovo tutti. Questa volta lo fa in sordina, confidandolo a quella stessa Sport Illustrated che lo aveva messo in copertina a 17 anni. La confessione s’intitola “I am coming home”, sto tornando a casa. La notizia si diffonde a macchia d’olio in un attimo. Cleveland è pronta a riabbracciarlo. Nella sua testimonianza, LeBron parla dell’Ohio come del posto in cui ha camminato, corso, pianto, sanguinato. Parla dell’Ohio come del luogo di cui si sente figlio. La testimonianza si chiude così: “In Northeast Ohio, nothing is given. Everything is earned. You work for what you have. I’m ready to accept the challenge. I’m coming home”. “Nel Nord dell’Ohio, niente è dato. Tutto è guadagnato. Tu lavori per quello che hai. Sono pronto ad accettare la sfida. Sto tornando a casa”. Il Ritorno del Re ai Cavaliers, alla ricerca dell’Anello. Verrebbe da dire: più epica di così…
Good Luck, Mr. James. Perché adesso, nella scacciata della maledizione, ci speriamo in fondo un po’ tutti.

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