Chi sta combattendo (e chi no) l'Isis tra i Paesi Arabi
La lista dei Paesi che in Occidente aderiscono alla coalizione contro l’Isis si allunga di giorno in giorno. Al momento conta di oltre 50 alleati. Gli ultimi ad aver aderito sono Danimarca e Belgio, rispettivamente con 7 e 6 aerei militari F-16. I belgi manderanno 120 uomini e i danesi 250, divisi tra piloti e personale di supporto. Ancora riservatezza su cosa farà la Gran Bretagna: il premier David Cameron ha chiesto il via libera al parlamento, precisando che l’operazione potrebbe richiedere anni. Nel frattempo a Cipro sono già posizionati e pronti a entrare in azione alcuni aerei della Royal Air Force.
Gli stati arabi. La coalizione auspicata dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama non solo sta prendendo forma, ma sta iniziando ad agire. È una coalizione molto particolare e variegata, che vede al suo interno alleati che forniscono supporto aereo ed equipaggiamenti militari, alleati che forniscono unicamente un aiuto umanitario, alleati che esprimono solo il loro appoggio ed altri, come Marocco e Tunisia, di cui ancora non è chiaro l’obiettivo nell’appoggio. A vario titolo fanno parte della coalizione anche molti stati arabi: Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman, Egitto, Turchia, Giordania e Libano sono i 9 stati del Medio Oriente e del Golfo che hanno apertamente deciso di schierarsi contro il fondamentalismo islamico. Insieme a loro c’è l’Iraq, che è il Paese in cui è nato l’Isis è in cui i miliziani dell’Isis hanno fatto i danni maggiori fino ad oggi. Il governo iracheno ha più volte chiesto un intervento militare per frenare l’avanzata dei jihadisti, che nel paese hanno seminato morte, terrore e distruzione.
Il ruolo della Lega araba. La lega araba ha fatto appello ai suoi membri affinché, “militarmente e politicamente”, si opponessero allo Stato Islamico. L’organizzazione panaraba comprende 21 Paesi più l'Autorità nazionale palestinese, e riunisce oltre 250 milioni di persone. Il suo scopo è quello di unire i paesi aderenti per coordinare lo sviluppo economico e mantenere la sovranità dei popoli arabi. Tra i compiti della Lega araba c’è il coordinamento dell'economia, dei trasporti e delle comunicazioni, nonché delle relazioni internazionali, delle attività culturali e sociali e della salute pubblica. Di fronte alla minaccia rappresentata dall’Isis, i ministri degli Esteri di tutti i paesi membri si sono accordati per prendere “tutte le misure necessarie per opporsi allo Stato Islamico”. Il resto del lavoro l’ha fatto il segretario di Stato Usa John Kerry, che nelle ultime settimane ha manovrato una fitta rete di incontri diplomatici al fine di convincere i paesi arabi ad unirsi alla lotta contro il terrorismo.
I Paesi coinvolti e il tipo di alleanza. Egitto e Oman hanno aderito alla coalizione fornendo un appoggio diplomatico, mentre altri paesi hanno aderito anche dal punto di vista militare. Questi sono di stampo sunnita, come Giordania, Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Qatar. Ognuno di questi ha partecipato ai raid aerei a fianco degli Stati Uniti, in Iraq come in Siria, dove ad esempio la Giordania ha distrutto molti degli obiettivi dello Stato Islamico con attacchi aerei. Inoltre, il regno ashemita ha contribuito allo sforzo atto a bloccare le linee di finanziamento che foraggiano le organizzazioni terroristiche. Arabia Saudita ed Emirati hanno condannato pubblicamente i miliziani dell’Isis in più occasioni, e hanno donato 100 milioni di dollari al Centro anti-terrorismo delle Nazioni Unite nonché 500 milioni di dollari sotto forma di assistenza sanitaria. Il Kuwait, che fornisce esclusivamente un appoggio di tipo umanitario, ha donato 9,5 milioni di dollari alle Nazioni Unite per aiuti in Iraq. Il Qatar ha inviato 300 tonnellate di aiuti umanitari. Questi ultimi paesi sembrano però giocare un ruolo ambiguo nel complicato scacchiere internazionale, poiché più volte sono stati sospettati di finanziare le milizie islamiste nella regione.
Un caso a parte: l’Iran. L’Iran, paese di stampo sciita, ha ribadito più volte la sua avversità nei confronti dei miliziani dell’Isis. L’ultima è stata all’Assemblea delle Nazioni Unite, dove il presidente Hassan Rohani ha dichiarato che «Nella lotta all'Isis, l'Iran è stato il primo Paese a entrare in scena, prima di chiunque altro. Combattiamo gli estremisti da anni, città per città. E se non ci fosse stato il tempestivo aiuto iraniano molte città irachene sarebbero cadute in mano ai terroristi». Ha anche comunque ribadito come l’Iran non abbia sempre visto di buon occhio l’Occidente e i suoi alleati, responsabili (a suo dire) di aver creato e alimentato l'estremismo nella regione. L’Iran ha quindi deciso di non appoggiare la coalizione di Obama, bollata da Rohani come “ridicola”.
Il no turco. La Turchia sta giocando un ruolo diverso. Il presidente Recep Tayyp Erdogan ha dichiarato di essere disponibile a fornire il sostegno necessario, ma non è ancora chiaro quale possa essere il reale contributo turco all’operazione. Il governo infatti ha mostrato cautela nell’abbracciare la strategia di Obama, e finora è apparso riluttante al coinvolgimento militare. Dal giugno scorso più di 100 furgoni per aiuti umanitari sono stati mandati a Turkmen, nel nord dell’Iraq, per un costo totale di 1,9 milioni di dollari. La Turchia ha finanziato anche la costruzione di un campo di assistenza per 20mila turkmeni iracheni. Il rifiuto della Turchia ad entrare nella coalizione contro lo Stato Islamico in Iraq è probabilmente dovuto anche al timore dello Stato di fornire armi al governo di Baghdad e ai curdi iracheni, che secondo il governo potrebbe armare anche i guerriglieri turchi del Pkk. Il Pkk, nella lotta ai miliziani islamisti, sta giocando un ruolo sempre più attivo. La Turchia ha avvitato un timido tentativo di pace per risolvere la questione curda. Gli Stati Uniti avevano chiesto ad Ankara l’alleanza, anche perché le basi aeree turche sono le più vicine alla Siria e all’Iraq, ma il governo turco (nonostante il Paese sia membro della Nato) ha detto no. Inoltre, i turchi hanno criticato la fornitura di armi ai peshmerga curdi iracheni, che stanno per essere inviate da alcuni paesi dell’Unione Europea (tra cui Francia, Italia e Germania). Il timore che una rivolta curda investa il Paese è un rischio troppo alto da correre.