70 anni fa, le prime elezioni italiane (votò il 92 per cento e scelse DC)

Settant'anni fa come oggi, in una domenica di aprile, l’Italia scelse il suo destino. Era il 18 aprile del 1948, giorno di san Galdino, e si andava alle urne per eleggere il primo vero parlamento dell’Italia post fascista. Dal 2 giugno del 1946 l’Italia non era più una monarchia: al Quirinale non c’era più il re ma il capo dello Stato e in Parlamento sedevano i Costituenti eletti dal popolo chiamati a scrivere la Carta Costituzionale. In questo contesto di profondi mutamenti che gli italiani, per la prima volta, parteciparono alle elezioni politiche di uno Stato democratico.
Due fronti contrapposti. La contrapposizione era frontale in ogni senso: non solo quella interna ideologica tra comunisti e cattolici, tra Peppone e don Camillo, ma anche quella internazionale, tra schieramento nel fronte occidentale o nel fronte sovietico. Il clima di collaborazione che aveva segnato le relazioni tra le forze politiche in seguito alla Liberazione era stato presto sostituito da una violentissima contrapposizione ideologica. Stati Uniti e Unione Sovietica spingevano dall’esterno per favorire ciascuna il proprio fronte. Anche la Chiesa, allora decisiva nello spostare milioni di voti, era compattamente schierata sul fronte anticomunista. C’erano anche due grandi leader a guidare gli schieramenti, due personaggi che hanno lasciato un profondo segno nella storia italiana. Da una parte Alcide De Gasperi, trentino, classe 1881; dall’altra Palmiro Togliatti, genovese, classe 1893. Democrazia Cristiana contro Fronte Popolare.
Una campagna accesissima. Fu una campagna elettorale al calor bianco, un clima di contrapposizione particolarmente acceso e una mobilitazione di massa diffusa e capillare. Gli slogan della campagna elettorale lo testimoniano («Nell’urna Dio ti vede, Stalin no!»); i comizi in piazza erano straboccanti di folla. Tanti testimonial scesero in campo, come il grande Eduardo De Filippo, schierato contro Togliatti. Erano scesi in campo i Comitati Civici di Luigi Gedda, che indussero i fedeli a considerare il voto per i comunisti come un peccato degno di scomunica. Pio XII avrebbe voluto che De Gasperi imbarcasse nello schieramento anche la destra dei Missini, ma il leader Dc non ne volle sapere chiuse loro la porta, a testimonianza della sua grandezza e della sua autonomia. Il Papa gliela fece pagare rifiutando l’udienza in occasione del matrimonio della figlia.
Il trionfo DC. Il verdetto fu di quelli senza appello. Quasi 27 milioni di persone si recarono a votare, il 92,23 per cento degli aventi diritto. La Dc di De Gasperi incassò il 48,51 per cento dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi. Per il Fronte Popolare lo scacco fu pesante, con il 30,98 per cento e 183 seggi. In numeri assoluti, 12 milioni di voti contro 8. Al Movimento sociale italiano, che Pio XII avrebbe voluto far salire sul carro della Dc, finirono le briciole (2,01 per cento).
Quel 18 aprile fu insomma il trionfo di De Gasperi, della sua intelligenza politica, del suo pragmatismo: aveva preparato il terreno con un accordo con gli americani che avrebbero lanciato il Piano Marshall per far ripartire l’Italia. Ma De Gasperi era anche un leader di larghe vedute, impermeabile alle logiche di parte. Qualche tempo dopo, tornando sul significato di quel trionfo elettorale, fece questo bilancio: «È un compito difficile quello di difendere la democrazia con il metodo della libertà, ma è un compito magnifico e merita di essere compiuto sino in fondo. Non possiamo abbandonarci; non rappresentiamo né un partito né una nazione, noi siamo una civiltà in cammino».
Questa sera alle 22.30 un documentario su RaiStoria rievocherà quella giornata chiave per l’Italia.