In memoria di Tino Sana, l'orfano che divenne il re dei falegnami
"Figlio" di don Bepo Vavassori e amico di Gimondi. La sua azienda è diventata un punto di riferimento in tutto il mondo per l’arredamento di altissima qualità
Se ne è andato Tino Sana, l’orfano che aveva un sogno: fare il falegname. E falegname il giovane Tino lo era diventato, e con i fiocchi. Al punto che la sua azienda è diventata un punto di riferimento in tutto il mondo per l’arredamento di altissima qualità, arrivando a rifornire le catene di alberghi e le navi da crociera più importanti del pianeta.
Tino Sana ci ha lasciati stamattina, venerdì 15 maggio, a 83 anni. Era rimasto molto attivo fino a pochi anni fa, poi la malattia lo aveva costretto a una vita molto tranquilla, fatta di piccole cose, e di grandi affetti. Quelli dei suoi quattro figli e di Clara, sua moglie. E della sua fede, perché Tino era un uomo di grande devozione. L’aveva imparata da bambino quando il papà morì in Germania, in fabbrica, durante la guerra, e la mamma fu costretta a portarlo in collegio. Ebbe però una grande fortuna: era il collegio di don Bepo Vavassori, era il Patronato San Vincenzo. Il Tino Sana diventò uno dei cinquantamila figli di don Bepo, un prete santo, che prima o poi verrà canonizzato.
Tino andò a scuola, da don Bepo imparò le cose fondamentali della vita, al primo posto la fiducia nel Signore, e la preghiera. Al secondo posto l’essere sempre galantuomini. Al terzo il valore del lavoro. Imparò a fare il falegname da don Bepo e poi si mise in proprio e realizzò la sua industria dove «ogni lavoratore è un bravo artigiano», come diceva lui stesso. Una vita di lavoro duro, di successo, da quando venne chiamato in Libia ad arredare la villa di Gheddafi, ai lavori per alberghi e navi.
Tino Sana non lasciò mai il Patronato, in realtà: continuò ad aiutare la struttura e ad animare l’associazione degli ex allievi anche dopo la scomparsa di don Bepo Vavassori, insieme al suo amico Mario Cavallini. Sapeva bene il Tino che la fede non si regge senza la carità e quando c’era bisogno non si tirava indietro.
Dopo la sua famiglia, dopo il suo lavoro, le passioni di Tino Sana erano l’Atalanta e il ciclismo e Felice Gimondi era il suo grande amico. Quando Felice vinse il mondiale a Barcellona, la moglie di Gimondi, Tiziana, e la figlia Norma erano davanti al televisore a casa del Tino. Se ne sono andati quasi insieme, a pochi mesi di distanza. Se visiterete il Museo del Falegname di Almenno San Bartolomeo - vero, grande museo della civiltà contadina - al piano superiore troverete tutta una sezione dedicata alla bicicletta, comprese le bici dei grandi campioni, da Coppi a Gimondi e pure ammirerete le maglie del campione bergamasco. Felice le diede al suo amico Tino perché le conservasse. Qualche volta, dopo che Felice si ritirò dalla corse, i due amici pedalavano insieme. E qualche volta il Tino riuscì persino a tenere la ruota del Felice in salita. Se ne vantava con discrezione, e faceva persino tenerezza. Ed è molto retorico e scontato, scriverlo: però è assai probabile che stamattina, lassù, questi due grandi e veri bergamaschi lassù si siano stretti la mano (non si sono abbracciati, non è da loro) e si siano chiesti «Alùra, come stét?». Per poi dirsi, sempre in dialetto: «Dai che andiamo a fare un giro in bici».