Alberto di Albino, sopravvissuto. Il mese di buio, la solitudine e la tortura del Cpap
L’albinese racconta le settimane di scontro con il coronavirus. In coma farmacologico del 28 febbraio al 4 aprile, è tornato a casa l’8 maggio. «Ho perso 30 kg, non riuscivo a muovermi»
di Fabio Gualandris
Incontriamo Alberto Paladini, sopravvissuto al Covid dopo aver temuto il peggio. 60 anni, nato e residente con la sua famiglia ad Albino, ci ha raccontato il suo viaggio di oltre due mesi in un’alternanza di paure e speranze, giunto felicemente all’epilogo, venerdì 8 maggio, con l’atteso ritorno a casa. «Ho vissuto un’esperienza abbastanza traumatica - commenta -, sono cardiopatico e forse per questo motivo il virus mi ha aggredito in modo particolarmente forte».
Ci parli dei giorni prima del ricovero.
«Non avevo particolari sintomi, solo un forte raffreddore, ma con difficoltà respiratorie, e mai avrei pensato di avere la polmonite. Due giorni prima del ricovero c’era stato un episodio di perdita di coscienza, motivo per il quale chiamammo il 118. Quella sera i soccorritori mi fecero notare che avevo la febbre, ma dopo il cardiogramma e la visita sconsigliarono il ricovero in ospedale. Due giorni dopo, il 27 febbraio, a seguito di un ulteriore svenimento in bagno, i miei familiari chiamarono di nuovo l’ambulanza, la mia temperatura corporea era molto alta».
E poi il ricovero...
«Sono stato inizialmente ricoverato a Seriate, ma i primi due giorni li ho passati nel corridoio del Pronto soccorso. La situazione era abbastanza surreale. Da allora non ricordo più nulla, ho saputo successivamente che ero stato intubato a Seriate in rianimazione il giorno 2 e portato all'ospedale di Lecco il 3. Dalla sera del 28 febbraio al 4 aprile, giorno in cui sono stato svegliato dal coma farmacologico, non ho nessun ricordo».
Il suo stato d’animo quando ha scoperto la diagnosi della malattia e del percorso di guarigione?
«Lo stato d’animo non era dei migliori, anche perché il primo giorno in cui sono stato svegliato non riuscivo nemmeno a capire dove fossi, non ricordavo niente degli ultimi trenta e più giorni e, quando il giorno seguente il medico mi ha dato la diagnosi della mia malattia, lo spavento è stato tanto. Però allo stesso tempo mi hanno aiutato a prendere coscienza che probabilmente il peggio era passato e che era il momento di voltare le maniche per poter arrivare alla guarigione».
Mentre viveva questa prova, cosa pensava e cosa temeva?
«Il pensiero più grande era chiaramente alla famiglia, e la cosa che temevo di più all'inizio era di non farcela. Perché dopo essere stato svegliato dal coma, e avendo perso quasi 30 kg avevo i muscoli talmente atrofizzati che non riuscivo nemmeno a muovere una gamba o alzare un braccio».
Come è stato affrontare la malattia lontano dalle persone care, in solitudine?
«È stata una prova molto difficile, sono riuscito a sentire la mia famiglia solo qualche giorno prima di Pasqua con un buco di 50 giorni dove non sapevo assolutamente niente e non ricordavo quasi nulla. Ho sofferto soprattutto la solitudine, perché essendo in reparti (malattia infettive e terapia intensiva) di puro isolamento, i contatti, con il personale stesso, sono minimi».
Il virus ha fatto visita anche a casa sua, nella sua famiglia?
«Probabilmente il virus ha toccato anche qualche componente della famiglia, ma in modo più lieve, sono stati comunque messi tutti in quarantena, avendo un familiare positivo».
Gli altri membri della famiglia di Alberto, la moglie Maria Isabel e i tre figli Nicole, Alessandro e Martina, raccontano i momenti di lontananza dal loro congiunto.
«Anche per noi è stata un’esperienza traumatica, eravamo sempre in pensiero, era angosciante soprattutto per l’alternarsi di notizie buone e negative. Aspettavamo ogni giorno la chiamata del medico con il bollettino della giornata. Abbiamo sempre cercato di restare positivi, anche se tante volte era davvero difficile. È stato complicato, soprattutto perché non parlavamo direttamente con Alberto, quindi lo sentivamo molto lontano. Ci ha aiutato molto il sostegno e l’aiuto da parte delle persone a noi care, come Brunella, sorella di Alberto, e i nostri amici più stretti. Da questa situazione abbiamo capito che bisogna sempre aiutare chi si trova in difficoltà, come hanno fatto poche persone vicino alla mia famiglia, aiutandoci in tutto e per tutto, anche se da parte nostra non c’era stata nessuna richiesta d’aiuto. Penso che sia proprio in questi momenti che si capisce chi davvero tiene a te, dandoti tanto senza aspettarsi nulla in cambio. Per questo, un giorno, quando questo brutto periodo sarà solo un ricordo, ci piacerebbe aiutare personalmente la gente che ha bisogno di aiuto o che si trova in una brutta situazione. Comunque, questa esperienza, seppur difficile, ci ha reso una famiglia ancora più unita».