L'analisi

Boris non ha vinto, ha stravinto Ma il difficile viene proprio ora

Boris non ha vinto, ha stravinto Ma il difficile viene proprio ora
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Non ha vinto. Ha stravinto. Boris Johnson ha in tasca 363 seggi del nuovo parlamento inglese: per la maggioranza ne bastavano 326. «Il 31 gennaio saremo fuori dalla Ue, senza se senza ma» è stato il suo primo proclama, le sue prime parole da primo ministro confermato. Ieri, giovedì 12 dicembre, gli inglesi lo hanno visto andare al seggio con quella sua aria di bizzarro guerriero, che si portava in braccio il cagnolino adottato poche settimane fa, un jack russel dal pelo folto ribattezzato Dilyn, che gli era stato consegnato da un’associazione animalista. Veniva da un canile e gli inglesi hanno evidentemente apprezzato…

 

 

Ora Boris Johnson ha nelle sue mani qualcosa che pesa ben più di quel cagnolino. È il destino di un Paese che si appresta, com’è nella sua natura, a vivere un passaggio storico, che non sarà certo un passaggio facile. Come ha spiegato uno tra i più autorevoli storici inglesi, Donald Sassoon, l’unica cosa sicura è che un vecchio mondo si è dissolto. È quel vecchio mondo sognato in modo un po’ snobistico da Tony Blair, che pensava a una Gran Bretagna europea governata armonicamente dalle elite finanziarie e intellettuali: un’Europa che assomigliava molto a un club esclusivo. Quel progetto si è dissolto come neve al sole, perché analogamente a quanto accaduto sull’altra sponda dell’oceano, il Paese profondo, quello che non conta dal punto di vista dei redditi ma conta pur sempre per i suoi numeri, ha fatto sbarramento. Quel “no” all’Europa che aveva sorpreso il mondo in occasione del referendum del 2016 non era un mal di pancia temporaneo. Era il sintomo di un malessere profondo. A differenza di quanto accaduto nel 2016, stavolta si è mobilitato l’elettorato giovanile: due milioni di under 35 in più rispetto alle ultime consultazioni si sono registrati per cercare di arginare l’onda nazionalista. Non è servito a molto, perché l’uninominale secco inglese non ha lasciato scampo a chi voleva fermare Boris.

 

 

Gioisce l’altro re biondo della politica mondiale, Donald Trump, che già vede la possibilità di un nuovo asse globale con Londra e che ha già dato i numeri del nuovo possibile patto commerciale. Ma per Johnson, pur con tanto consenso e pur facendo leva sul suo decisionismo, non sarà una strada rosa e fiori. Innanzitutto quello del 12 dicembre è stato un voto inglese, più che britannico: è l’affermazione di un nuovo nazionalismo inglese che è destinato a creare frizioni con altri nazionalismi contigui, come ad esempio quello scozzese. Lo Scottish National Party guidato da Nicola Surgeon, infatti, ha portato via 55 seggi su 59, 20 in più rispetto a quelli conquistati nel 2017. Ma poi c’è anche il grande nodo dell’Irlanda del Nord cattolica. Lì in conservatori quasi non esistono. E lì si dovrà convivere con la frontiera più delicata e anche potenzialmente più esplosiva causata dalla Brexit, quella tra l’Irlanda di Dublino, che resta più che mai europea, e quella di Belfast, costretta invece a seguire il destino della Gran Bretagna. È l’unica frontiera di terra con il continente. Dovesse diventare un muro per via delle regole introdotte dalla Brexit, sarebbe un disastro...

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