Brexit: l'Inghilterra al crocevia Cameron implora, il mondo è con lui
Siamo alla vigilia dell’attesissimo voto sulla Brexit, il referendum circa la permanenza o meno del Regno Unito nell’Unione europea, e contrariamente alle tendenze manifestate nelle scorse settimane, il fronte del “remain”, del rimanere nell’Ue, sembra avere un discreto margine di vantaggio su quello del “leave”. Siamo nel campo dei sondaggi e dunque delle ipotesi, perciò occorre andarci molto cauti; ma senza dubbio si tratta di un’inversione di previsioni rassicurante per chi, dall’Europa, proprio non vuole saperne di andarsene. Chissà che l’omicidio di Jo Cox, la deputata inglese favorevole al “remain” uccisa a colpi di pistola la scorsa settimana nei pressi di Leeds, non abbia in qualche modo influito. Comunque: finalmente se ne verrà a una, e la maggior parte degli allarmismi in caso di uscita, paradossalmente, arrivano dallo stesso suolo britannico, più che da Bruxelles o dagli altri Paesi membri. Ieri sera il Premier David Cameron, naturalmente sostenitore del “remain”, durante un accalorato messaggio televisivo direttamente da Downing Strett, sede del Governo, ha parlato di “decisione cruciale” e di “scelta irreversibile” in caso di Brexit. Partiamo, allora, proprio dalle parole del Primo Ministro.
Spassionatissimo David. A dire il vero, il discorso che Cameron ha tenuto a tutto il regno, più che un comizio elettorale è parso quasi una sorta di confessione, dove il Premier ha ammesso qualche peccato legato al suo mandato ma ha anche rimarcato con forza le buone azioni che al di fuori della vita comunitaria europea non si sarebbero mai potute compiere, quasi a voler spingere il popolo, in versione di ieratico giudice, a non punirlo con la peggiore delle pene, la Brexit appunto. Il Premier è apparso quasi imbarazzato nel lasciar intendere agli ascoltatori di comprendere chi lo accusa di incoerenza per avere a lungo cavalcato la polemica contro Bruxelles e convocato egli stesso, per calcoli di politica interna, un referendum che oggi spacca il suo governo, il suo partito e soprattutto il Paese. Si è poi scagliato contro le argomentazioni sostenute dal fronte del “leave”, irresponsabili riguardo all’economia e “disgustose” circa l’immigrazione.
Ha poi speso parole al miele per Bruxelles, ricordando come le politiche comuni di austerity abbiano salvato il continente, Gran Bretagna compresa, dalla tenaglia mortifera della crisi e di come senza un coordinamento comunitario condiviso circa la questione dei migranti, le cose non farebbero altro che andare molto peggio di adesso. Insomma, rimanere nell’Ue è “la scelta giusta”. Per quanto forse un po’ più di sana gagliardia avrebbe potuto maggiormente spronare alla carica l’elettorato ancora incerto sul da farsi, l’atteggiamento quasi supplichevole che Cameron ha tenuto nell’ultimo periodo e sublimato nella confessione pubblica di ieri sera pare abbia dato i suoi frutti: assodato che dei sondaggisti inglesi c’è da fidarsi davvero poco (dopo la figuraccia delle elezioni del 2015), il “remain” sembra essere nuovamente in testa, e anche di 6-7 punti, un margine tutto sommato confortevole. Cautela, comunque.
Endorsement eccellenti. La campagna elettorale sulla Brexit ha fatto sì che, naturalmente, si esponessero anche protagonisti non direttamente impegnati nella politica britannica ma che hanno comunque un certo interesse circa l’esito del referendum. Stante l’ovvio appoggio al “remain” di tutta l’Unione europea, dell'Ocse, del Fmi e degli Usa, e stante la non particolarmente rilevante dichiarazione di voto di un’icona british come David Beckham (che comunque voterà per la permanenza), di rilievo sono i pareri dati dai responsabili delle università di Oxford, Cambridge, Durham, Bristol e di tutti gli atenei del Regno Unito presenti nel ranking dei 50 migliori al mondo. “La permanenza nell’Ue sostiene le università britanniche nell’attrarre le menti più brillanti di tutta Europa, il che rinforza la ricerca universitaria e l’insegnamento, oltre a contribuire alla crescita economica”, si legge in un comunicato ufficiale.
Da Airbus a Michelin, da Danone ad Air France: anche 34 grandi multinazionali francesi hanno fatto sentire la loro voce, pubblicando sui più importanti quotidiani d’Oltremanica una lettera in cui implorano gli “amici britannici” a votare per il “remain”. “Noi vi vogliamo bene, ma siamo in affari, non soltanto innamorati” – si legge nella lettera – “Le nostre aziende investono nel Regno Unito e occupano migliaia di persone in Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord, investiamo perché siete un leader nel mercato unico europeo e commerciamo tutti in libertà nell’Ue. La Bretagna è Grande. Ma perché resti attraente per le imprese avete bisogno degli ingredienti di questa grandezza: accesso al mercato e libero commercio. Per voi, per noi, per noi tutti: per favore, non andatevene”.
Le possibili conseguenze. Le ragioni addotte in favore del “leave” sono facilmente intuibili: emancipazione dai vincoli economici dell’Ue, indipendenza sotto tutti i punti di vista, costruzione di un mercato esclusivamente secondo le proprie esigenze e i propri progetti. La leva su cui i promotori del “remain” puntano per convincere l’elettorato riguardano i disastri a cui l’economia britannica andrebbe incontro in caso di abbandono: per quanto sia difficile stabilire con certezza cosa potrebbe accadere, è certo che il venir meno del principio della libera circolazione di merci, capitali e persone, caratteristica appannaggio dei Paesi membri, creerebbe un notevole impaccio al mercato e al mondo del lavoro. I sostenitori del “leave” dicono che questo non è un problema: il Regno Unito potrebbe fare come la Norvegia, cioè entrare a far parte dell’area economica di libero scambio europea ma senza immischiarsi nei suoi processi politici. Il Regno Unito importa dall’Europa più di quanto esporti, quindi è probabile che questo procedimento non sarà ostacolato dai Paesi europei, ma ci vorranno tempo e negoziati il cui esito non è mai scontato. Di converso, molte aziende europee o che fanno affari in Europa e che hanno la loro sede nel Regno Unito, per ragioni fiscali e perché Londra è una delle principali capitali finanziarie del mondo, in caso di uscita dall’Ue e con la relativa incertezza che regna sui futuri negoziati, potrebbero decidere di ridurre il loro personale a Londra e trasferirlo direttamente sul continente.