Budapest, così il cinema aiuta i rom
Uno dei dibattiti più accesi in Europa è quello sulle condizioni del popolo rom: nel bene e nel male, è difficile trovare persone indifferenti al tema. Proprio quest'anno, si è chiuso il "Decennio dell'Inclusione rom": l'obiettivo era quello di garantire un maggiore livello di integrazione nei Paesi, prevalentemente nell'est Europa, in cui la comunità è ampiamente rappresentata. Un po' per la durata ristretta del progetto, un po' per lo scarso impegno da parte delle amministrazioni nazionali, numerosi settori (fra cui scuola, lavoro e sociale) sono rimasti invariati, o addirittura peggiorati. In Ungheria si stima che vivano fra i 450mila e il milione di rom, ma non vi sono statistiche ufficiali poiché, nel censimento, è possibile non dichiarare la propria origine etnica ed è presumibile che molti preferiscano evitare di farsi riconoscere per evitare discriminazioni.
Oltre 20 anni di impegno. A Buda, la parte collinare della capitale magiara, quasi affacciata sulla splendida Isola Margherita, si trova la sede di Romedia, una ong attiva sin dal 1992 nella produzione di documentari e serie televisive dedicate al popolo rom. Qui incontriamo Katalin Barsony, giovane e intraprendente regista e direttrice della fondazione dal 2008: le sue parole fanno capire che cosa significa essere rom nel 2015 e quali sono gli step necessari per garantire un'integrazione senza perdere la forte identità che li contraddistingue. Ma soprattutto, in che modo il cinema può aiutare questa etnia.
Dalla fondazione alla tv. «Romedia venne fondata da un gruppo di intellettuali rom», esordisce Katalin, «per cambiare la percezione nei confronti di questa comunità attraverso i media. All'epoca avviarono corsi radiofonici per giovani rom, ai quali venne offerta la possibilità di rendersi attivi e prendere coscienza delle proprie origini e tradizioni». La tecnologia ha permesso ai media di raggiungere livelli di diffusione impensabili rispetto al 1992, e inevitabilmente questo ha garantito una maggiore penetrazione per le produzioni di Romedia. «Ovviamente la realtà 2.0, l'introduzione dei social media e di Youtube hanno reso possibile la diffusione di prodotti alternativi. Negli anni abbiamo mantenuto una comunicazione persistente, e siamo riusciti a produrre Mundi Romani, una serie di 42 episodi disponibile anche in francese ed in inglese, e avviare una lunga collaborazione con la tv pubblica Duna, che nel 2009 ha trasmesso i nostri lavori in prima serata».
L'interesse internazionale. Nel 2011, però, una svolta che costringe Romedia a cambiare strategia: il governo di Orban promuove la discussa legge sui media e, fra i vari effetti, i canali pubblici devono interrompere i rapporti con la fondazione. «Da quel momento abbiamo deciso di focalizzarci attraverso su network, e soprattutto di operare in maniera del tutto indipendente e crossmediale. Recentemente abbiamo firmato un accordo con HBO Europe e questo ci permetterà di raggiungere milioni di persone in tutto il continente». Con un punto di forza. «Il nostro principio è quello di offrire un prodotto altamente professionale e sviluppare messaggi visivi attraverso i quali informare un pubblico sempre più ampio».
Altre opere. Mundi Romani non è l'unico lavoro significativo: nel 2012 il film Uprooted è stato nominato all'Al Jazeera International Documentary Festival. Tratta le storie di bambini rom coinvolti nei rimpatri forzati dalla Germania al Kosovo, mentre Auschwitz Requiem è un documentario dedicato al Porajmos, il nome con cui viene indicato lo sterminio di rom e sinti operato dai nazisti: a ispirare il video, la piéce del compositore olandese Roger Moreno Rathgeb, pure lui rom.
Ripartire dall'infanzia. Uno dei pochi risultati raggiunti dal decennio dell'inclusione rom è l'integrazione dei bambini nelle attività prescolari ed all'educazione primaria assieme agli altri loro coetanei, a fronte di una segregazione sempre più consistente nell'istruzione superiore a accademica. Si può partire da lì per avere lo stesso risultato anche in età più avanzate? «Le probabilità che un bambino riproduca il comportamento e acquisisca i valori dei propri genitori sono molto alte, e questo diventa un particolare di rilievo quando si parla di minoranze povere o segregate. La sfida da cogliere è l'inclusione, permettere ai bambini di mischiarsi. Oltre alla potenziale nascita di amicizie in giovane età, questo permetterà un miglioramento degli standard e della qualità dell'educazione». Romedia guarda anche ai giovani. «Lavoriamo prevalentemente con studenti universitari e attualmente abbiamo 82 studentesse impegnate in corsi per diventare cine-operatrici».
Donne, lavoro ed istruzione. La figura della donna è spesso ricorrente nei lavori della fondazione, così come è dibattuta all'interno e all'esterno della comunità rom. Proprio per questo, vi sono casi di donne doppiamente discriminate: dall'esterno perchè di questa etnia, dall'interno perchè donne. «Dipende soprattutto dalla comunità alla quale si appartiene: ci sono diverse percezioni della figura femminile, però tradizionalmente viene individuata come una posizione da proteggere, per cui alcune famiglie si oppongono alla professionalizzazione. Noi crediamo che le donne rom abbiano diritto ad un'educazione paritaria e debbano essere coscienti rispetto alla loro identità, promuovendo la positività di questi valori culturali».
La discriminazione è un tema sensibile e non arriva solo dall'esterno. Sono numerose le famiglie che, negli anni ed in seguito a migrazioni, hanno abbandonato i legami con la cultura per evitare discriminazioni di sorta. «Si stima che vi sia oltre un milione di rom invisibili», continua la direttrice di Romedia. «Vi sono alcune società meno aperte e la reazione è quella di non volere lo stigma di essere rom. Come fondazione non giudichiamo nessuno, è chiaro come molti lo facciano per ragioni di sopravvivenza, ma è nostra intenzione promuovere questo stigma, dare un orgoglio più forte a chi decide di portarlo».
I documentari. Il lavoro delle giovani impegnate nei campus estivi è impressionante: il giorno successivo all'intervista, brevi cortometraggi sono stati mostrati al pubblico in un caffè nel centro di Budapest. L'esperienza racchiusa nel campus Buvero (dal romani “conchiglia”) viene raccontata da cinque ragazze macedoni provenienti da Kumanovo e da quattro impegnate nelle riprese a Nagykoros, a sud-Est di Budapest, lo scorso agosto. Jennifer, Amela e Natalia fanno parte del team di Kumanovo, hanno fra i 15 e i 18 anni e, in due settimane di campus, hanno accumulato la stessa esperienza possibile solo durante anni di studi universitari. Le loro storie parlano di vestiti tradizionali, emigrazione (come nel caso di un dottore di origine rom costretto a partire per la Germania) e sport (intervista a Redzep Redzepovksi, argento per la Jugoslavia a Los Angeles 1984). Le ragazze ungheresi, dal canto loro, dedicano la loro attività multimediale alla città di Nagykoros, al locale mercato dei cavalli, ora caduto in disuso dopo l'introduzione del passaporto animale, alla convivenza pacifica fra le componenti etniche (rom ungheresi, ebrei ungheresi e il resto della popolazione) prima del secondo conflitto mondiale e, infine, una panoramica sulla sessualità giovanile, un tema che, come suggerito dal titolo stesso del cortometraggio, “Tabù”, indica le difficoltà che ancora si possono incontrare all'interno della comunità nel volerne parlare.