Burn out. Cos'è e quanti ne soffrono (Ovvero, quando lavorare sfianca)

Da qualche tempo a questa parte, è molto acceso il dibattito in Francia a proposito della possibilità di inserire il cosiddetto “burn out” fra le malattie professionali. Il burn out è il crollo psichico e fisico del lavoratore in conseguenza di un eccessivo carico di ansia e stress da lavoro, ed è un problema che tocca 3 milioni di francesi. Data la rilevanza di una statistica del genere, i sindacati hanno avanzato la proposta di inserire il burn out fra i malanni tutelati all’interno del rapporto di lavoro, ovvero quelli per i quali, ad esempio, è consentito un periodo di assenza comunque retribuito. Ma le polemiche non hanno tardato ad arrivare.
Che cos’è il burn out. Il burn out (letteralmente, “bruciarsi”) è un esaurimento fisico e psicologico dovuto ad ansia e stress. Senza un tempestivo ed efficace trattamento, i soggetti cominciano a sviluppare un processo di logoramento e decadenza psicofisica: perdono energia e in poco tempo non sono più capaci di sostenere e scaricare lo stress accumulato. Esaurimento emotivo, depersonalizzazione, cinismo, impressione di una scarsa realizzazione personale: sono tutti effetti tipici da burn out. Il soggetto tende a sfuggire l'ambiente lavorativo, assentandosi sempre più spesso e lavorando con sempre minore entusiasmo, provando frustrazione e insoddisfazione. Il senso di esaurimento è la prima reazione allo stress prodotto da eccessive richieste di lavoro o da cambiamenti significativi. Quando una persona sente di aver oltrepassato il limite, sia a livello emozionale sia fisico, si sente prosciugata, non in grado di rilassarsi e recuperare, priva di energia per affrontare nuovi progetti, nuove persone e nuove sfide. Si viene a sviluppare allora, in seconda battuta, un cinismo di fondo. La persona assume un atteggiamento freddo e distaccato nei confronti del lavoro e delle persone che incontra, diminuisce (fino ad azzerare) il proprio coinvolgimento emotivo nella professione, e può abbandonare persino i propri ideali e valori. Cresce, di conseguenza, un profondo senso di inadeguatezza e di perdita totale di autostima, cosa che comporta un’ovvia inefficienza lavorativa. L’incidenza della sindrome di burn out è maggiore nelle persone di età superiore ai 30-40 anni, non sposate e con livello culturale più elevato.
La vicenda francese. A quanto pare, in Francia è un problema particolarmente diffuso, tanto che, come detto, ben 3 milioni di lavoratori ne sarebbero toccati. Da qui, sia per tutelare la salute del professionista sia per evitare che un datore di lavoro subisca danni in seguito ad un dipendente che lavora in condizioni tutt’altro che ottimali, l’idea di inserire il burn out fra le malattie professionali. L’input è arrivato dal deputato socialista ed ex Ministro per l’Istruzione Bonoit Hamon, che ha presentato all’Assemblea Nazionale un’apposita proposta di legge, sotto forma di emendamenti alla riforma del dialogo con le parti sociali. In realtà, nella prassi, già capita che, a discrezione del datore di lavoro, alcuni dipendenti abbiano avuto la possibilità di fermarsi per burn out: nel 2013, in Francia, a 239 di essi è stata concessa tale facoltà. Ma sono ancora decisamente troppo pochi, specie considerando che, ad esempio, fra il 2008 e il 2009 ben 35 dipendenti della sola France Telecom si sarebbero suicidati in conseguenza del burn out.
C’è chi non ci sta. Ma non sono pochi coloro che si oppongono ad una legge specifica che inserisca il burn out fra le malattie professionali. In particolare, le principali perplessità riguardano la difficoltà di definire con precisione dal punto di vista medico un esaurimento lavorativo, e di distinguere le cause direttamente legate con l’attività professionale da quelle di natura personale. «Se si apre la porta delle malattie professionali ai rischi psichici, si mette un dito in un ingranaggio di cui nessuno misura la portata», spiega al quotidiano Les Echos un esperto della questione, secondo cui è forte il rischio di derive, per esempio se i medici cominciassero a dare la colpa di tutte le depressioni ai datori di lavoro. Scettici anche i giuristi: sul malessere fisico, si ritiene, l’impatto del lavoro, e quindi la responsabilità del datore di lavoro, è facile da rilevare in modo oggettivo, ma è diverso per i rischi psicosociali, che sono multifattoriali.