La borsa cinese affonda (di nuovo) Il perché secondo numeri ed esperti

Era inizio luglio quando i mercati mondiali si accorsero di quanto stava accadendo a Shanghai, ovvero dello scoppio della bolla speculativa e finanziaria, la prima della storia del mercato cinese. Dal 12 giugno alla prima decade di luglio la borsa di Shanghai aveva perso ben il 30 percento del proprio valore, oltre 3mila miliardi andati in fumo in meno di un mese, 10 volte tanto rispetto al debito della Grecia (330 miliardi di euro) che tanto preoccupa e fa discutere, ancora oggi, in Europa. Gli interi mercati finanziari di Spagna e India valgono meno della cifra persa dalla Cina. Un crollo senza precedenti che Pechino, però, aveva deciso di affrontare di petto, attuando svariate misure per tentare di arginare le perdite.
Oggi, a oltre un mese di distanza, la fotografia che ci offrono le borse asiatiche non è, però, più ottimistica: il 24 agosto è stato rinominato, il tutto il mondo, il lunedì nero di Shanghai, che con il suo crollo dell’8,45 percento s’è portata dietro anche Hong Kong (- 4,63 percento), Tokyo (- 4,61 percento) e Taipei (- 7,46 percento). Il tutto dopo che la settimana precedente la borsa cinese aveva chiuso con un calo ulteriore dell’11 percento. Davanti a queste perdite incontrollate, anche l’Europa ha pagato dazio: l’indice FTSE MIB ha chiuso in perdita del 5,96 percento a 20.450 punti, minimi da metà febbraio; Francoforte ha ceduto il 4,7 percento e va in negativo con il bilancio complessivo da inizio anno; Madrid è arretrata del 5 percento, Parigi del 5,3 e Lisbona del 5,8. Fuori dall'Eurozona, Zurigo ha perso il 3,7 percento e Londra il 4,67. La Borsa di Atene è continuata a crollare dopo le dimissioni di Tsipras, andando sotto addirittura del 10,5 percento. Il Dow Jones americano, pochi minuti dopo l’apertura, perdeva già il 6 percento, lasciando per strada oltre 900 punti. Anche un colosso come Apple, mai scesa sotto i 100 dollari per azione, è finita di poco sopra i 99 dollari con una caduta di oltre 6 punti percentuali.
È, senza dubbio alcuno, il peggior calo degli ultimi quattro anni per i listini asiatici, che sono ancora nella bufera. E a trascinarli giù, come detto, è stata Shanghai, da anni oramai motore della crescita globale e che s’è trovata ad affrontare, nel 2014, la crescita più bassa dagli anni ’90, e ha ulteriormente rallentato al 7 percento nei primi due trimestri del 2015. Pechino ha lanciato una massiccia manovra di svalutazione dello yuan, letta come volontà di sostenere l’export, ma il panico borsistico è solo cresciuto, alimentato anche dal crollo dell’indice sul manifatturiero cinese ad agosto. In altre parole la muraglia che era stata studiata dal Governo centrale s’è rivelata inutile e ora sono al vaglio ulteriori ipotesi. Come riporta La Stampa, secondo il Wall Street Journal la Banca Centrale Cinese sarebbe pronta a rendere le banche più liquide riducendo l’ammontare delle riserve che gli istituti sono obbligate a tenere a garanzia dei creditori, e , secondo indiscrezioni, la Banca del Popolo potrebbe ridurre di mezzo punto percentuale il rapporto fra investimenti e capitale. La decisione, sempre stando alla stampa americana, sarebbe attesa per fine agosto e potrebbe liberare 678 miliardi di yuan, circa 106 miliardi di dollari.
Davanti a questo quadro, tutt’altro che roseo, Business Insider ha interpellato alcuni dei maggiori esperti internazionali di finanza, chiedendo loro un’opinione su quanto sta accadendo in Oriente.
Nick Lawson, Deutsche Bank: «Il mercato cinese, dopo aver distrutto i propri minimi a luglio, sta vivendo l’ennesima ondata della bolla che lo sta stravolgendo. Storicamente un forte rimbalzo iniziale è poi seguito da un riesame per evitare la caduta dei minimi. È ciò che sta succedendo ora, al di là delle manovre delle autorità. Ma quando le risorse vengono allocate in maniera sbagliata, è quasi impossibile frenare il processo, anzi, si rischia di aggravare la situazione in futuro».
Kit Juckes, Societe Generale: «I mercati hanno paura della debolezza attuale della Cina, hanno paura di andare incontro a ulteriori sofferenze del mercato delle materie prime e anche delle azioni di Pechino e del loro possibile impatto. La divergenza tra il prezzo delle materie prime e delle azioni non è un tema nuovo, ma il problema è che ora si sta ripetendo un caso come quello della bolla dei “dot-com” statunitensi del 2000, dove quella che si pensava solo una crisi di un mercato emergente si è trasformata in una recessione degli Stati Uniti».
Timothy Moe, Goldman Sachs: «Una dura scossa alle aspettative di crescita e la fiducia vacillante nella politica sono al centro della crisi dei mercati asiatici. I mercati hanno significativamente dato un “prezzo” a queste preoccupazioni: i ricorsi storici ci dicono che ci potrebbero essere ancora crolli del 15 percento».
John Stoltzfus e Jim Johnson, Oppenheimer: «A nostro parere ciò che sta avvenendo in Cina, soprattutto nelle ultime due settimane, è una sorta di tosatura del mercato, un po’ come avviene con le pecore a cui viene tolto il pelo. Non siamo di fronte a un mercato folle, ma, col senno di poi, ci renderemo conto che la situazione si rivelerà pratica e necessaria per i mercati».
Guillermo Felices, Barclays: «Io vedo ulteriori rischi di ribasso per la Cina e potenzialità di crescita per gli altri mercati globali. Ma è da tempo che le analisi cicliche ci mostravano i rischi a cui andavano incontro i mercati asiatici. Consiglio di tenere posizioni selettivamente ribassiste su attività che sono direttamente esposte sulla sovraccapacità della Cina e che hanno tenuto i prezzi abbastanza stabili e rallentati. Continuo a pensare, comunque, che le autorità cinesi abbiano la forza per contenere i rischi».