Tre cose belle al Meeting di Rimini
Si è conclusa la 35° edizione del Meeting per l’Amicizia fra i popoli, la kermesse cattolica di matrice ciellina che ogni anno richiama a Rimini migliaia di persone. L’incontro conclusivo, “Testimoni di libertà”, è stato dedicato ai cristiani perseguitati nel mondo e ha visto tra gli altri la partecipazione del pachistano Paul Jacob Bhatti e dell’iracheno Shlemon Warduni, vescovo ausiliare del Patriarcato di Babilonia della Chiesa Cattolica dei Caldei. Come ogni anno la settimana del Meeting ha offerto decine di incontri, mostre, eventi culturali, musicali, sportivi, e soprattutto testimonianze. Tra le più apprezzate quella con il gesuita padre Antonio Spadaro, direttore de “La Civiltà Cattolica”, che ha raccontato Papa Francesco visto da vicino. Di seguito presentiamo tre belle iniziative che non hanno avuto rilievo sui media.
L’incontro di apertura con padre Pizzaballa, Custode di Terra Santa. È stata una lettura precisa e tagliente di quanto sta accadendo a Gaza e, più in generale, in tutto il Medio Oriente, attesa con grande interesse da una platea di più di 10mila persone. Il punto di vista era quello di chi quelle terre le vede da vicinissimo tutti i giorni, da dove però ha ammesso di essersi trovato sopraffatto dagli eventi degli scorsi mesi: «Il Medio Oriente come lo abbiamo conosciuto negli ultimi quarant’anni è finito. Servono nuove prospettive per il futuro, ma al momento nulla è chiaro». La Siria annega nel suo stesso sangue da più di due anni, Israele e Palestina sono tornati a farsi guerra, il Califfato islamico dell’Isis spinge e minaccia tutto il mondo. L’immagine direbbe che ci sono solo nubi cupe. E invece uno spiraglio s’affaccia, segni di speranza che padre Pizzaballa ha voluto sottolineare: tra le macerie della città di Aleppo, ad esempio, mancano acqua e energia elettrica, ma lui stesso ha visto cristiani e musulmani collaborare condividendo questi beni. Andando indietro con la memoria poi saltano in mente le immagini della preghiera di Papa Francesco con Abu Mazen e Shimon Peres, o l’incontro tra Bergoglio e il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo. «La preghiera non è una magia, ma introduce a un rapporto con la realtà», ha detto il francescano. «Non bisogna solo guardare la realtà nella sua crudeltà senza censure, ma anche dare prospettive. Questi gesti servono appunto come segni per il futuro». Con la coscienza che il corso della storia è sempre nelle mani di Dio. Come accadde nella tempesta che colpì i discepoli in barca: tutti s’adoperano per fare il meglio, ma solo Uno ha il potere di placare le acque.
La mostra sull’archeologia in Siria. Scavare nel profondo del tempo per poter conoscere meglio l’uomo di oggi. Andare là dove si trovano i primi resti di ominidi per scovare che, già allora, l’essenza della nostra civiltà c’era o era in formazione. Questo lo scopo della mostra costruita dall’archeologo Giorgio Buccellati assieme alla moglie Marylin Kelly-Buccellati, entrambi docenti all’università di Los Angeles. Centro del lavoro prima di tutto gli scavi di Urkesh, in Siria, oltre ad un sito di Dmanisi, sud della Georgia. Pannelli e frammenti che presentano cosa doveva essere la vita dell’uomo quando era poco più che una scimmia. Le civiltà erano ancora lontane a venire, eppure l’uomo era già capace di organizzarsi in comunità, pensare al di là dell’istinto per ideare modi nuovi per cacciare, e addirittura avere atteggiamenti caritatevoli verso altri individui. Questo, per lo meno, quello che gli studiosi hanno dedotto osservando cinque crani ritrovati appunto in Georgia, risalenti a 1 milione e 800mila anni fa. Uno di questi non aveva denti, com’era possibile fosse riuscito a vivere a lungo? «L’ipotesi più plausibile è che siamo di fronte a uno dei primi esempi di assistenza». Qualcuno, insomma, masticava il cibo per lui. A ciò si aggiunge il valore attuale degli scavi in Siria, diventati indirettamente un progetto per la pace: da 3 anni la guerra ha bloccato ogni lavoro, tuttavia i siriani che hanno collaborato agli studi hanno sempre dimostrato enorme vitalità e scarsa rassegnazione di fronte a questi eventi. C’è chi rischia la vita per presidiare i siti, guardiani che s’adoperano a fondo per evitare razzie e saccheggi. Uniti per valorizzare ciò che di positivo vedono per la loro vita al fondo di questi scavi.
La storia di Marco Calamai, ex allenatore di basket professionista. Il Meeting è pieno di incontri, spesso con grandi nomi di politica, economia, esteri, ecc... Le sorprese migliori però sono riservate spessissimo da conferenze che all’apparenza paiono presentare personaggi poco celebri, e che invece hanno qualcosa di bello e grande da raccontare. È il caso di Marco Calamai, che famoso lo era sì fino agli anni Novanta: faceva l’allenatore di basket in Serie A1. Poi però ha preferito lasciare tutto: «Troppi giocatori attenti più ai condizionamenti dei loro procuratori che alle istruzioni del coach... E poi mi mancava l’insegnamento». E a questo, infatti, ha scelto di darsi poco dopo. Guardando, in particolare, ad un mondo: quello dei ragazzi autistici. «Se uno nuota e chi nuota con lui si ferma, questo continua a nuotare; ma se io ti lancio una palla e non me la rendi, non possiamo giocare insieme». In pratica, col basket si è inventato un nuovo metodo educativo per aiutare questi giovani, incapaci di relazionarsi con chi è diverso da loro. Col tempo, si è accorto che la loro resistenza veniva rotta nel modo più semplice: passandosi una palla. «Ora sono contento. Più povero ma contento», ha detto Calamai al Meeting, presentando la storia sua e della comunità “La Lucciola” di Modena. Con una squadra che poi, alla prima stagione contro ragazzi normali, ha vinto la bellezza di 17 partite su 20.