Astice maltrattato, giudice stupito e uno strano processo a Torino
Arriva da Torino una storia che offre significanti spunti di discussione su due temi che stanno molto a cuore all’opinione pubblica italiana: quello dei maltrattamenti agli animali (con tanto di scontro tra animalisti e chi si oppone alla loro visione del mondo e delle cose) e quello delle distorsioni della giustizia italiana. Ma andiamo con ordine.
Il pescivendolo di Torino. Sarah Martinenghi, su Repubblica, ha raccontato lo strano caso del pescivendolo portato in tribunale per aver esposto sul suo banco del pesce due aragoste e tre astici ancora vivi, con le chele fasciate da elastici e fuori dall’acqua, appoggiati su un “letto” di ghiaccio. A denunciare il fatto un’animalista di passaggio, la quale, toccata sul vivo innanzi a cotanta crudeltà, ha deciso bene di chiamare i vigili per farli intervenire. Quest’ultimi, con solerzia sabauda, sono accorsi e hanno ritenuto di trovarsi effettivamente innanzi a un caso riprovevole di violenza e maltrattamenti su animali. Dopo l’iter burocratico di rito, il pm Antonio Rinaudo ha prima firmato il decreto di citazione a giudizio per il pescivendolo, e poi trascinato quest’ultimo in un non certo simpatico processo penale. Secondo il solerte pm, l’imputato aveva agito «con crudeltà» evidente nei confronti dei 5 crostacei.
Un atto contro la legge. Per quanto ci si possa trovare d’accordo o meno sia con l’animalista che ha denunciato i fatti, sia con il pm che ha deciso di impiegare il proprio tempo e le proprie risorse per un fatto del genere, va dato loro atto che la legge, effettivamente, punisce il comportamento tenuto dal pescivendolo: la pratica attuata dal commerciante per vendere i crostacei infatti, sebbene sia assai diffusa, è vietata dalla legge che tutela gli animali. Nello specifico, il reato contestato all’uomo rientra nei delitti contro i sentimenti degli animali. Chiunque ne sia riconosciuto colpevole, e dunque si dimostri che abbia sottoposto a sevizie, fatiche e maltrattamenti delle specie animali, rischia la reclusione da 3 a 18 mesi o una multa da 5mila a 30mila euro. Insomma, mica quisquiglie.
Lo stupore del magistrato. Eppure, nonostante i presupposti normativi ci fossero tutti, il processo a carico del pescivendolo s’è chiuso con un’assoluzione per «la tenuità del fatto». Una sentenza che ha fatto assai discutere, tanto che si è deciso di pubblicarla sulla rivista legale Diritto penale contemporaneo come “sentenza tipo” per il futuro. Il motivo è semplice: Sergio Favretto, magistrato onorario che a nome della terza sezione penale del Tribunale di Torino ha pronunciato la sua sentenza di assoluzione, ha esplicitamente affermato cosa pensasse di quel caso nel dispositivo della stessa. E non sono certo state parole morbide. Nella sentenza si legge: «Il giudice, valutando con stupore come la vicenda (inerente a tre astici e due aragoste) abbia coinvolto ben quattro agenti della polizia municipale ed allertato un veterinario dell’Asl, come si sia trattato di cinque crostacei destinati a vendita e cottura, come non si possa affatto parlare di maltrattamenti voluti a danno degli animali, ma di normali e diffuse tecniche di momentanea conservazione in ghiaccio, ritiene pertinente l’applicazione della non punibilità per tenuità del fatto». E aggiunge «si può solo convenire su una rimproverabilità quasi simbolica». Tradotto dal leguleio alla lingua volgare: il giudice stesso si stupisce di come sia possibile che un caso del genere, ai limiti del ridicolo, possa esser giunto sulla sua scrivania e aver coinvolto ben 5 rappresentanti dello Stato (magistrati esclusi), per poi chiudere il tutto con una semplice ramanzina, neppure poi tanto convinta. Vista la mole di lavoro che i nostri tribunali son già costretti a sopportare, talvolta sarebbe forse meglio evitare di andare fino in fondo se il caso in questione non è poi così grave.
Tanto rumore per nulla. Il fatto, però, è che ci troviamo innanzi a un doppio paradosso: prima quello della donna che va tranquilla al mercato e, davanti a un paio di crostacei che a breve sarebbero comunque finiti cucinati in una pentola, pensa bene di salvarli dalle grinfie del pescivendolo cattivo che li tiene segregati su un letto di ghiaccio con le chele bloccate; dall’altro quello di un pm che, attuando a lettera (forse troppo alla lettera) una legge, finisce per beccarsi una mezza tirata d’orecchie da parte del magistrato giudicante, che lo sbeffeggia quasi per essersi adoperato con cotanta solerzia su un caso francamente di pochissimo conto. E dunque? Chi ha ragione? L’animalista, che ora sarà arrabbiatissima per come è andato a finire il processo; il pm, che si starà domandando cos’ha sbagliato; o il giudice, che ha anteposto il buonsenso (a suo parere) alla legge? Ognuno può farsi la propria idea. Ci rimane però la fortissima sensazione che di bravi come noi italiani a fare tanto rumore per nulla, ce ne siano pochi.