Dai raid sulla Libia a quelli in Siria La memoria corta della Francia
Quattro anni e mezzo dopo il disastroso intervento militare in Libia, la Francia ci riprova. E il rischio di un nuovo fallimento è assai concreto, tanto che il premier italiano Matteo Renzi che si trova a New York per partecipare all’Assemblea dell’Onu chiede che si faccia di tutto per «evitare una nuova Libia». Era il 19 marzo 2011 quando i caccia francesi solcarono i cieli nordafricani per attaccare le forze lealiste al regime di Gheddafi, prendendo di mira quattro mezzi corazzati dell’esercito regolare impiegati nell’assedio di Bengasi. E ieri, 27 settembre 2015, l’Eliseo ha annunciato che sono cominciate le operazioni in Siria per colpire gli obiettivi legati allo Stato Islamico, in particolare nella città di Raqqa, nel nord del Paese, che l’Isis ha proclamato sua capitale.
I motivi del raid. A inaugurare i raid, anche questa volta, i caccia Mirage, gli stessi che da un anno bombardano l’Iraq. All’epoca il presidente era Nicolas Sarkozy, che disse: «Siamo pronti a mettere in atto le richieste dell’Onu per porre fine alle violenze in Libia». Oggi all’Eliseo siede François Hollande, il quale ha affermato che gli attacchi in Siria, in coordinamento con la coalizione internazionale che dallo scorso anno combatte l’Isis, sono per «legittima difesa» e che «se sarà necessario, nelle prossime settimane ci potranno essere altri attacchi», ogni volta che la Francia si sentirà sotto minaccia terroristica. Pare che gli obiettivi colpiti, fossero «santuari» dell’Isis dove si stavano preparando nuovi attacchi contro Parigi. Per ora il primo raid, stando a quanto afferma Hollande, ha «completamente» distrutto un campo d'addestramento dei miliziani dello Stato Islamico, nella parte orientale del Paese. Ma l’Isis non conferma e quindi non si sa ancora quale sia il reale bilancio dell’azione.
Gli errori occidentali in Libia. Per ora i francesi si sono limitati a un solo raid, mentre nel caso libico le operazioni sono andate avanti per sette mesi, fino al 31 ottobre, pochi giorni dopo la morte del rais Muhammar Gheddafi. Da allora il Paese è sprofondato nel caos, e non sono in pochi ad avere nostalgia dei terribili anni del regime, sebbene in Libia la libertà e le democrazia fossero concetti a dir poco astratti. Che l’intervento militare abbia spianato la strada al caos è un dato di fatto, al punto che l’estate scorsa anche il presidente americano Barack Obama ha ammesso che i metodi e le proporzioni dell’intervento sono state un errore tattico perché è stata sottostimata la «necessità di andare a piene forze. Se decidi di farlo devi fare uno sforzo molto più aggressivo per la ricostruzione della società».
Terra di nessuno. Sta di fatto che a quattro anni dalle fine delle operazioni militari la Libia è ormai terra di nessuno, senza una reale transizione democratica e senza leader politici capaci di traghettare il Paese verso la pace. Si può dire che ormai la Libia è il Paese che non c’è, una terra in totale balia di lotte tribali che lo frammentano in regioni.
La tribalizzazione della Libia. Una tribalizzazione che si vede anche osservando una qualsiasi cartina geografica. Prima c’era un unico, grande Paese di quasi 2 milioni di chilometri quadrati, il cui collante era costituito dal regime di Gheddafi, che secondo alcuni storici e analisti ha dato ai libici un’identità e una fierezza che mai il popolo aveva conosciuto. Oggi, invece, il territorio è diviso in Cirenaica, Tripolitania, Fezzan, ci sono due governi, uno internazionalmente riconosciuto e uno islamista, formato da quello che è rimasto della coalizione dei ribelli. Una situazione totalmente fuori controllo, che ha provocato una massiccia ondata di profughi in Europa e le minacce di un nuovo intervento internazionale. Gli attori presenti sul territorio oggi sono nazionalisti, islamisti, salafiti-jihadisti, che lottano senza esclusione di colpi per avere il predominio gli uni sugli altri.
Accordo tra i governi? Nelle scorse settimane era stato annunciato il raggiungimento tra i due governi di un accordo, presentato dall’Onu, volto alla creazione di un governo di unità nazionale, che facesse uscire la Libia dal pantano in cui è piombata. Ma la firma non c’è ancora stata. Quindi è ancora tutto in stand by.
Critiche ai raid francesi. Il caos libico, scaturito dalla guerra civile che ha investito il Paese dopo la deposizione di Gheddafi, è stato provocato dalla totale assenza di una prospettiva da parte francese per la definizione di un assetto utile a stabilizzare la situazione nel Paese. E così ha trovato terreno fertile la violenza degli jihadisti legati al Califfo. Oggi i raid francesi in Siria sono stati criticati non solo da un Renzi preoccupato per quello che potrebbe accadere dopo l’intervento. Anche secondo Vladimir Putin, che vede nei raid di Parigi un tentativo di rovesciare il Governo di Damasco più che l’Isis, un vuoto di potere generato dalla caduta di Assad potrebbe portare alle stesse situazioni in cui si sono trovati l’Iraq dopo la fine di Saddam Hussein e la Libia del dopo Gheddafi.
Putin e Obama. La ricetta di Putin per evitare una nuova Libia è quella del «rafforzamento delle strutture di governo che devono essere aiutate nella lotta al terrorismo e, allo stesso tempo, chiedendo loro di impegnarsi in un dialogo positivo con l’opposizione interna». Ed è proprio Putin a giocare un ruolo fondamentale nella crisi siriana alle prese non solo con la guerra civile ma anche con l’Isis. Stasera il numero uno del Cremlino incontrerà il presidente americano Barack Obama, e insieme discuteranno, a margine dell’Assemblea dell’Onu, di come portare la pace in Siria evitando una nuova Libia.