Covid-19

Diario di bordo di un capo infermiere del Papa Giovanni sulla «tempesta perfetta» vissuta un anno fa

La testimonianza diretta di Sergio Angeretti, infermiere coordinatore dell'ospedale cittadino, sui quaranta giorni più bui dell’epidemia: «I pazienti ci guardavano dal casco della Cpap e imploravano aiuto. Quanto sconforto nel veder morire la gente da sola»

Diario di bordo di un capo infermiere del Papa Giovanni sulla «tempesta perfetta» vissuta un anno fa
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Sergio Angeretti, infermiere coordinatore all’ospedale Papa Giovanni, nei quaranta giorni più bui dell’epidemia ha lavorato in un reparto Covid. In quel periodo terribile ha tenuto un “diario di bordo” sul quale ha annotato pensieri ed emozioni. A un anno di distanza ha voluto offrirci i suoi ricordi e la sua testimonianza.

di Sergio Angeretti

«La tempesta perfetta non chiede permesso a nessuno, arriva quando meno te lo aspetti anche se è primavera...». Con queste parole ho iniziato il mio “diario di bordo” con il quale annotavo ogni giorno gli eventi salienti dei quaranta giorni come coordinatore infermieristico in un reparto Covid. All’inizio della pandemia, che sembrava una vera guerra, ero capitano di un equipaggio di poche persone e con poche risorse. Giorni intensi, terribili, con vissuti e ricordi che la memoria ha cercato invano di archiviare in qualche remoto cassetto del cervello, colmi di immagini e suoni mai visti né uditi prima.

Tutto è successo così all’improvviso, in modo inatteso, travolgente, con il reparto messo sottosopra... i materiali andati ovunque... e quella linea rossa sul pavimento a marcare il confine tra lo “sporco” e il “pulito”, tra il “pericolo” e la “sicurezza”, tra la “paura” e il “coraggio”. I ricordi, ancora molto vivi in me, mi portano a rivedere quello che mi sono sentito in quel periodo nero: il capitano di un veliero in mezzo a un mare buio e oscuro, in preda a una tempesta con onde altissime che ci travolgevano, con nel cuore il timore di non farcela, con la responsabilità di un equipaggio di marinai che remavano a tutta forza e con grande dispendio di energie per salvare le persone affidate e se stessi. A pensarci bene sono passati solo pochi mesi, eppure sembra già un ricordo lontano, così surreale, ma dentro ognuno di noi, in qualche momento del giorno o della notte, tornano a farci compagnia quelle immagini che vorremmo cacciare definitivamente in quel cassetto per poi chiuderlo a chiave, per sempre.

Imperativo: resistere

Ricordo molto nitidamente l’arrivo dei primi pazienti affetti da Covid, tutta la squadra al completo, unita come non mai, coinvolta in un lavoro frenetico e senza sosta, senza alcun lamento. Resistere era diventato il nuovo imperativo. Ricordo lo smisurato impiego di macchine e supporti respiratori, lo sconcerto di noi infermieri e dei nostri medici per lo spropositato numero di malati che arrivavano, si aggravavano, morivano anche improvvisamente, nonostante le attente cure prestate… Malati che morivano soli, senza nessun affetto accanto, con noi che cercavamo di accudirli e accompagnarli al meglio delle nostre possibilità, sia sul piano dell’assistenza sanitaria che del supporto psicologico, cercando di intercettare i loro bisogni. Ricordo i pazienti che mi guardavano dal casco della Cpap e imploravano aiuto e, con nel cuore un senso di impotenza cercavo di sostenerli pensando: «Non posso mollare, un capitano non abbandona mai la nave e l’equipaggio durante una tempesta». Nonostante la paura e l’angoscia, l’etica, il senso del dovere e la diligenza mi hanno dato la forza per continuare ad agire, senza se e senza ma, non rendendomi neppure conto di quanto girassero veloci le lancette dell’orologio e con me tutto il personale sanitario della squadra.

L’ultima video-chiamata

Molti ricordi sono ancora estremamente vivi e provo a esprimerne alcuni. Ricordo che in una delle infinite giornate intorno alle 20 vagavo per tutto l’ospedale alla ricerca di nuovi involucri dove riporre le salme, che erano un numero sempre più alto. Nonostante l'estremo impegno dell’equipe medico-infermieristica, questo nemico sconosciuto aveva il sopravvento e lo sconforto “del non sapere”, dell’ignoto, era sul volto di tutti noi. Ricordo l’ultima video-chiamata di un paziente alla moglie prima che fosse intubato e portato in area critica, le sue lacrime e la sua premura nel ricordarle quanto amore nutrisse nei suoi confronti e in quelli del suo “piccolino” di tre anni... non è più tornato: il Covid se l’è portato via per sempre. Ricordo un ammalato che una mattina aveva chiesto a un’operatrice di pregare insieme perché aveva paura di morire; era lo stesso che qualche giorno dopo mi chiese: «Davvero fuori non si ha idea di cosa sta succedendo qui?». Io avevo difficoltà a rispondere perché il fuori dall’ospedale per me era di pochissime ore dedicate solo al riposo per lenire l’infinita stanchezza fisica e morale, per essere pronto e combattivo nelle prime ore del mattino successivo.

Ricordo che durante questo periodo eravamo persino stati autorizzati a sostituire i sacerdoti nell’ultimo saluto ai morenti per il “sacramento dell’unzione”... anche stravolgendo le idee personali ci siamo resi disponibili per dare a chi lo richiedesse “l’estremo saluto”. Quelle persone non andavano lasciate morire sole. Già, perché non era consentito l'ingresso di nessuno, né del sacerdote per dispensare il sacramento, né dei familiari dei malati, visti per l’ultima volta a casa all’arrivo dell’ambulanza che li conduceva in ospedale. Qualche volta, non mi vergogno nel confessarlo, guardavo con insistenza la taciturna statua della Madonna all’ingresso del reparto in cerca di una risposta che tardava ad arrivare: «Almeno tu, che stai dalla nostra par te...», pensavo... Raccoglievo insieme al personale tutta l’inquietudine che scaturiva per non poter vedere, salutare, stringere i propri congiunti e la tristezza mi travolgeva, i pensieri vagavano nella testa percorrendo strade dolorose che mai avrei pensato di compiere.

Loro, i nostri ammalati, soli e, talvolta, anche senza avere chi portasse loro un cambio di biancheria. I loro cari erano, per la maggior parte, anch’essi in quarantena. I pochi parenti non in quarantena potevano solo consegnare gli indumenti personali dei degenti a noi, e in limitatissimi momenti stabiliti, ma non gli era possibile vedere i loro cari; ognuno di noi coordinatori ha quindi pensato a reperire e a far reperire indumenti per assicurare quel minimo di conforto che anche solo dei panni puliti possono dare. Ho provato a immedesimarmi come se fossi io in quella situazione e ho compreso quanta angoscia potesse provare chi, in un letto di ospedale, doveva andarsene senza la consolazione o l'abbraccio degli affetti più cari, ed allora ecco qui il nostro esserci. Noi c'eravamo; “noi con loro”.

 

I primi guariti

Ricordo la fatica, la sete, la paura, il sonno e l’insonnia, i tanti gesti spettacolari di riconoscenza e di gratitudine. Ricordo però anche i primi successi terapeutici, le prime guarigioni, i trasferimenti in riabilitazione, i primi sguardi di soddisfazione e di ottimismo. Malgrado tutta la sofferenza avevamo ancora la voglia di sorprendere. Diciamo alla signora al letto 10: «Signora, ci deve scusare ma dobbiamo metterla in camera con un uomo». La signora: «Si, capisco la situazione». L’infermiere: «Le apro la tenda divisoria così almeno vede se è il suo tipo!». Scorsa la tenda, i due si guardano, si riconoscono: marito e moglie ritrovati dopo giorni che non avevano notizie l’uno dell’altro. E giù lacrime, e giù abbracci. L’avevamo pensata bene! Insomma, era l’apparire della luce in fondo al tunnel. È qui il momento in cui ho davvero sentito riecheggiare ciò che sta scritto: “Gettate in Lui ogni vostra preoccupazione, perché Egli ha cura di voi”, ed ecco la forza inaspettata, quella che non mi sono mai spiegato, quella che mi ha aiutato a sorreggere anche gli altri: “Quando sono debole, è allora che sono forte”…

Ciò che ha fatto la differenza è stato un poderoso lavoro di squadra: infermieri, medici, fisioterapisti, ostetriche, tecnici di radiologia, di laboratorio, Oss e naturalmente il personale delle pulizie e dei trasporti-assistiti; in sintesi, un carro di persone e di professionisti che hanno scelto di non arrendersi cambiando il corso degli eventi, rendendo la vita, in quell’inferno, di nuovo possibile. Che soddisfazione vincere quell’infido nemico invisibile! Sembrava una guerra senza fine ma abbiamo cominciato insieme, unendo tutte le forze, a vincere le prime battaglie che ci hanno dato il coraggio e la forza di superare la linea rossa, la fatica, la paura e lo sconcerto. Ricordo la difficoltà di quelle interminabili ore del personale bardato per assistere i pazienti Covid, che soffriva la sete e io che facevo quanto possibile per sostenerli, anche fisicamente, per alleviare questa enorme sofferenza e facevo trovare loro sempre acqua fresca e succhi di frutta.

Ci hanno chiamato eroi

Ci hanno definiti eroi, personalmente preferisco dire che siamo stati testimoni di un evento eccezionale e che siamo noi, i professionisti di sempre; abbiamo semplicemente servito il nostro Paese con la competenza e la professionalità che ci appartengono. Terremo in memoria quanto sia stato importante, fondamentale il nostro esserci ed essere stati a fianco dei nostri malati sempre e in ogni istante: “Noi con loro”. Senza distinzione di età, sesso, razza o ceto sociale: durante l'emergenza Covid-19, noi abbiamo cercato di fare tutto quello che umanamente e professionalmente si poteva fare. Cosa resterà di quei giorni maledetti del Covid-19? Speriamo il più possibile. Quanto vissuto, nel bene o nel male, costituisce una preziosa esperienza professionale e di vita, consapevoli che, come recita Pascoli: “Il dolore è ancor più dolore se tace”. Per questo non dobbiamo dimenticare mai. Lo dobbiamo alla cittadinanza e soprattutto alle tante persone e ai colleghi che oggi non ci sono più e da lassù ci incitano ad andare avanti perché la guerra non è ancora finita.

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