Il discorso critico di Gori al Pd che in tanti hanno apprezzato
Lo scorso fine settimana, a Bologna, si è tenuta una convention del Pd. Tra i tanti discorsi che vari rappresentanti dem hanno tenuto, c'è stato anche quello del sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Un discorso che è stato particolarmente apprezzato da molti (Linkiesta lo ha definito «un gran discorso», mentre Il Foglio ha parlato di unica «svolta») per la sua concretezza. Non solo ideali, insomma, ma anche contenuti. Abbiamo deciso di riproporvelo integralmente. Gli spunti, del resto, sono veramente tanti.
Buongiorno a tutti e grazie per questa occasione di confronto.
Oggi avevo pensato di parlarvi “da sindaco” per condividere con voi le difficoltà di un ruolo costantemente in trincea e per raccontarvi come tanti sindaci democratici siano riusciti – in una fase politica decisamente non favorevole – a vincere le ultime elezioni amministrative. Di come queste affermazioni siano nate dalla concretezza e dalla prossimità. Soprattutto, dalla capacità di tenere insieme, ciascuno nella sua città, crescita e inclusione sociale, innovazione e solidarietà, apertura e appartenenza. Ma mi fermo qui.
In questi giorni ho ascoltato molti interventi e visto venire avanti un’idea di fondo sul futuro del Pd: un’idea del tutto condivisibile dal punto di vista valoriale e delle finalità ultime del nostro impegno. Insufficiente però, a parer mio, a guidare la nostra azione politica oggi e domani, nell’Italia degli anni Venti. Di questo dunque vorrei parlare. Ho respirato molta idealità e poca realtà. E la politica, invece, si fa nella realtà. Si è parlato molto di giustizia sociale, di lotta alle disuguaglianze e di redistribuzione della ricchezza. Tutti temi, ripeto, molto condivisibili. Non altrettanto della formazione della ricchezza, anzi per niente.
Ha ragione Mauro Magatti quando dice che non conta solo la dimensione della torta, ma anche chi l’ha fatta, quali ingredienti ha usato, come vengono divise le fette. Ma conta anche la dimensione della torta. Non c’è stato un solo intervento che abbia affrontato i temi della produttività, della crescita, del debito, della micidiale zavorra rappresentata dagli interessi su quel debito. Anche a me sta a cuore la giustizia sociale, insieme alla libertà. È per questo che faccio politica. Ma un partito serio – se ci tiene - ha il dovere di chiedersi come, con quali strumenti, nell’Italia degli anni Venti, quell’obiettivo si possa realizzare. Io non credo ci siano molte alternative. Se vogliamo arrivare a quell’obiettivo dobbiamo mettere il lavoro e l’occupazione al centro dell’agenda del Partito Democratico e del Paese. Il lavoro come valore, innanzitutto. Il lavoro come chiave della cittadinanza e come antidoto all’insicurezza. Il lavoro inteso come strumento di emancipazione personale, ma anche come leva insostituibile di coesione e sviluppo collettivo. Il lavoro come fondamento dell’identità di questo partito e del suo rapporto con la società. Dobbiamo tornare ad essere il partito del lavoro e dell’occupazione! Di tutti i lavori: di quello dipendente e di quello autonomo, del lavoro precario e del lavoro d’impresa.
Nella mia provincia il tessuto produttivo è composto per oltre il 90% da piccole e piccolissime imprese. Molte di queste sono state create da operai o artigiani che un giorno hanno deciso di mettersi in proprio e con fatica, magari lavorando 15 ore al giorno, piano piano hanno costruito la loro azienda. Oggi sono imprenditori. Mi spiegate come possiamo non stare dalla parte di queste persone? Se siamo un partito di soli pensionati e dipendenti pubblici c’è decisamente qualcosa che non va… Perché stare dalla parte del lavoro e dell’occupazione significa avere una bussola. E battersi così per la dignità del lavoro, dipendente e precario, e per una giusta remunerazione; dare importanza alla formazione e alla competenza; comprendere che l’innovazione tecnologica rappresenta un’opportunità di emancipazione del lavoro e dei lavoratori, come dimostrano i Paesi che più hanno investito in tecnologie e formazione – Germania, Giappone, Corea del Sud – che hanno bassi tassi di disoccupazione e un’occupazione di alta qualità – altro che tecnofobia; significa riconoscere la transizione ecologica come un’occasione di sviluppo, persino disporre di una chiave per l’integrazione degli immigrati: attraverso il lavoro; e infine un indirizzo etico: perché lavoro significa anche fatica, sacrificio e senso del dovere – e ce n’è molto bisogno.
Un libro che ho letto nelle scorse settimane – "La società signorile di massa”, del sociologo Luca Ricolfi – mette in evidenza un dato abbastanza sconcertante. In Italia lavora solo il 45% degli abitanti. Per farvi capire: in Svezia lavora il 69% dei cittadini – tutti compresi -, in Svizzera il 65%, in Inghilterra il 61%, il 60% negli Stati Uniti, il 59% in Germania. In Italia il 45%, dato che sarebbe ancora più basso – 43% - se si considerassero i soli italiani, e che un poco si alza grazie agli stranieri, che lavorano per il 60%. 45 per cento. E gli altri? Gli altri accedono al surplus - e non se la passano malissimo, secondo l’autore, a giudicare dai consumi – senza lavorare. Se escludiamo i minori e i pensionati, gli altri vivono grazie alla rete familiare, alla ricchezza accumulata dai padri o dai nonni, a rendite di vario tipo, a trasferimenti di denaro pubblico, all’evasione e allo sfruttamento del lavoro servile (lavoro nero e sottopagato, perlopiù di stranieri): una nuova forma di schiavismo. È dagli anni 80 che gli italiani hanno smesso di investire nel futuro, cercando di conservare la ricchezza più che produrla. E da quando questo assetto a cominciato a scricchiolare – per il 50% della popolazione, a causa della doppia crisi iniziata nel 2008, un 50% concentrato soprattutto al Sud e nelle periferie, in cui forte è la quota di giovani e di famiglie numerose – la paura di perdere il benessere che si era acquisito è diventato il sentimento prevalente nel nostro paese.
Non stupisce che la modernità sia vista come una minaccia, e la narrazione ottimista come uno schiaffo: perché la gente sente la terra che si disfa sotto i piedi. Proteggere quel benessere che sta svanendo è la prima preoccupazione degli italiani. E lì trova chi le promette protezione: chi un reddito senza neanche bisogno di lavorare, chi la pensione anticipata, chi un drastico taglio delle tasse… Lì trova l’uomo forte che è capace di cantarle all’Europa, quello che parla chiaro e che promette muri, difese, dazi, porti chiusi. La Nazione come rifugio dal mondo. Come rifugio dalle novità che sottratte ad ogni nostro controllo e contro ogni nostra volontà fioriscono e impazzano nel mondo (globalizzazione, concorrenza, asiatica, tecnologia, stranieri). Rifugio materiale e rifugio culturale. La Nazione come scudo protettivo. È un’Italia spaventata che mitizza il passato e che crede alle favole dei populisti.
Prima gli italiani! Potete immaginare qualcosa di più consolatorio? Potete immaginare qualcosa di più illusorio? Di più falso? Noi abbiamo il dovere di dire la verità. La verità è che non può durare. Un Paese che non cresce è un Paese che va indietro, e il conto lo pagano i più fragili. Che senza Europa saremo molto più deboli. La verità è che questo Paese è fermo da 25 anni. E che quelli che lavorano sono troppo pochi per andare avanti. La verità è che chi lo ha governato negli ultimi anni della prima repubblica lo ha indebitato fin sopra i capelli. Anche l’austerità è a suo modo un’illusione. Una necessità ma anche un’illusione. Dal 1996 ad oggi l’Italia ha accumulato nel complesso un avanzo primario medio del 2% all’anno (è la differenza tra entrate e uscite, al netto degli interessi sul debito), nel complesso pari al 43% del PIL e a circa 700 miliardi di euro ai valori attuali. 700 miliardi! Nessun Paese occidentale è stato altrettanto virtuoso. La Germania non ha fatto altrettanto, eppure… Nelle dinamiche del debito pubblico apparentemente non c’è traccia di decenni di disciplina di bilancio italiano. Dal 2006 ad oggi il debito tedesco è sceso dall’86% al 68% del PIL. Nello stesso periodo quello italiano è salito dal 104% al 134%. Perché? Perché negli ultimi vent’anni le dimensioni dell’economia italiana sono cresciute dell’0,5% medio, quasi nulla, contribuendo a far salire il debito – su cui ogni anno si aggiungono decine di miliardi di interessi (quest’anno 65, nel 2020 saranno 76) – e soprattutto il rapporto tra questo e il PIL.
L’economia tedesca è cresciuta tre volte di più e soprattutto il debito tedesco è un quarto del nostro. E sarebbe stato molto peggio senza l’euro e senza Draghi! L’austerità è dunque necessaria ma inefficace. Se l’Italia non riprende a crescere è come cercare con fatica di riempire un secchio bucato. La verità è che senza crescita non abbiamo futuro. E la crescita richiede impegno, fatica, intelligenza e solidarietà: tutte cose oggi piuttosto impopolari. Dobbiamo evitare di dirle perché sono impopolari? Se preferite possiamo accodarci all’onda retrotipista, alla nostalgia del passato, e rituffarci nel ‘900, nella critica del capitalismo sfruttatore, e fustigarci per aver fugacemente creduto che il mercato possa determinare delle opportunità, abiurare il jobs act e i governi Letta, Renzi e Gentiloni. In questi giorni ho sentito parecchia gente suonare questo spartito. Porta voti? Ho qualche dubbio. È la stessa strada percorsa dai socialisti francesi. Se la imboccassimo anche noi credo che Renzi avrebbe motivo di festeggiare… Soprattutto non risolve i problemi dell’Italia. Non restituisce benessere a chi ha paura di perderlo, non crea nuovi posti di lavoro, non frena la denatalità, non evita la fuga di tanti giovani, non allarga il welfare, non sostiene una vera svolta ambientale, non potenzia l’istruzione. Non avvicina l’obiettivo della giustizia sociale.
Senza crescita non ci sono i soldi per fare cose di sinistra. Lo stiamo vedendo con la legge di bilancio: per evitare l’aumento dell’Iva, che sarebbe stato un disastro, e fare poco di più, facciamo 14 miliardi di deficit e siamo costretti ad inventarci nuove tasse. Siamo in un loop di debito che cresce, interessi che si mangiano tutto e pochi spiccioli che restano per fare le cose. Certo, c’è il contrasto dell’evasione fiscale, ma non pensiate che basti. È da un quarto di secolo che l’Italia non cresce, anzi decresce se si conta la senescenza naturale degli edifici, delle infrastrutture e delle conoscenze. Il problema è nella produzione. La Francia ha quasi la stessa produzione manifatturiera con 800 mila addetti in meno. Un addetto in Italia crea 60 mila euro di valore all’anno, in Francia 73 mila, e in Germania 77 mila. Siamo la seconda manifattura d’Europa, ma rischiamo il sorpasso da parte della Francia.
Per cambiare marcia servono più investimenti: privati, pubblici e delle multinazionali. Bisogna convincere le aziende – i cui depositi sono cresciuti di 128 miliardi dal 2012 al 2019 – a investire nel digitale, in ricerca, in nuove soluzioni organizzative, in capitale umano – esattamente com’è stato fatto in Emilia Romagna e come abbiamo fatto anche noi con Industria 4.0, muovendo 240 miliardi di investimenti, e come oggi fatichiamo a fare. E perché le aziende si decidano ad investire servono una pubblica amministrazione più efficiente, una forte semplificazione delle norme e della burocrazia e una giustizia più rapida. Difficile non vedere come questo punto – il lavoro, e cosa serva per creare lavoro – segni una rilevante distanza dalla cultura dei nostri attuali alleati di governo.
Non ero contrario ad avviare una la collaborazione, viste le alternative – ben altro è immaginare un’”alleanza strutturale” – ma la qualità di un governo non si giudica dalle intenzioni, si giudica dalle opere. E le opere, su questo specifico fronte, lasciano molto a desiderare. I titoli li conoscete: Ilva, Alitalia, Whirpool, Comau, riconversione dell’automotive, fallimento del reddito di cittadinanza, frenata su Industria 4.0. C’è un problema di egemonia culturale, che stiamo subendo. L’impressione che diamo è che il governo non abbia abbastanza cuore la crescita e la produttività, e a che a prevalere sia la cultura del risarcimento assistenziale, accompagnata da un ritorno di statalismo. Visto dalle regioni del Nord, questo determina una gravissima frattura con i ceti produttivi, e non solo con gli imprenditori. È un problema molto serio. Come ha scritto Dario Di Vico: «La Lega è già forte di suo – anche qui, anche in Emilia Romagna – non ha bisogno di essere aiutata».
E a proposito di Emilia Romagna, la piazza delle “sardine” – l’altra sera – è stata meravigliosa. Qualcuno ha osservato che era una piazza principalmente “contro”, e non si vince se ci si ferma al “contro”. Quella piazza, secondo me, era invece anche “per”: per un modello di società che si accompagna ad un modello di economia. E che le “sardine” stipate in Piazza Maggiore vogliono tenersi stretto. Quel modello, il modello dell’Emilia Romagna, è fondato innanzitutto sul lavoro e sull’occupazione, ed è un modello che tutta l’Italia vi invidia. E’ il modello di una regione che in questi anni ha portato la disoccupazione dal 9 al 4.8%. E che vanta un tasso di occupazione del 71,3%, il più alto del Paese. Che ha raggiunto questi risultati partendo dal Patto per il Lavoro – appunto – sottoscritto con imprese, sindacati, camere di commercio, comuni, università e terzo settore. E che ha saputo attivare investimenti per oltre 20 miliardi nelle opere pubbliche e nella mobilità, nella tutela del territorio e nella casa, nella ricerca tecnologica, nell’innovazione e nell’internazionalizzazione del sistema produttivo, nella formazione, nella sanità e nel welfare. Investimenti pubblici e investimenti privati. Che ha avuto la capacità di attrarre investimenti privati nelle aree interne, chiedendo impegni nella formazione in cambio degli incentivi. Lavoro, occupazione, crescita. Lavoro, occupazione, crescita. Su cui si fondano l’ampliamento del welfare, il contrasto della povertà e la lotta alle disuguaglianze. La giustizia sociale che ci sta tanto a cuore. Questo è il modello Emilia Romagna, che quelle “sardine” vogliono sia difeso. E che mi piacerebbe che fosse il modello di tutto il Pd. Crescita e inclusione. Sviluppo e solidarietà. Apertura e comunità. Se ci fate è esattamente la ricetta dei sindaci democratici. Con questa ricetta a maggio abbiamo vinto, battendo i candidati della Lega. Sono sicuro che ci riuscirà anche Stefano Bonaccini.