Dopo l’intervista rilasciata a Repubblica dal presidente egiziano Abdel Fatah Al Sisi si torna a parlare di intervento militare in Libia con una missione militare guidata dall’Italia. I piani non sono ancora chiari, ma quello che maggiormente si teme è l’evoluzione imprevista di un eventuale conflitto. Dev’essere questo timore ad aver spinto l’ex premier Massimo D’Alema ad aver apprezzato la posizione di Renzi in merito all’intervento, che avrebbe usato «parole sagge di prudenza». Perché anche per D’Alema non ha senso intervenire senza che in Libia ci sia un governo unico che chieda aiuto per sconfiggere l’Isis.
Le idee di D’Alema. Ciononostante, D’Alema non ha mai nascosto la sua antipatia nei confronti di Renzi, a partire dal fatto che ha sempre considerato un errore non aver fatto pressioni all’Onu affinchè in Libia il compito di Alto Rappresentante fosse affidato a Romano Prodi, che conosce bene il Paese. «Si è lasciata la gestione della crisi a improbabili trattative», ha dichiarato D’Alema aggiungendo che l’Italia all’epoca perse l’occasione di giocare un ruolo politico di primo piano nella crisi, «tanto più che tutte le fazioni libiche che erano favorevoli e lo hanno fatto sapere». Ma la prudenza di Renzi degli ultimi giorni e la sua cautela nel dichiarare guerra, come chiesto dagli Stati Uniti, sono state apprezzate dall’ex premier.
Tutti contro tutti. Ormai in Libia tutti sono contro tutti. Anche il governo di Salvezza nazionale, quello che l’Onu ha creato e per cui ha designato come premier Fayez Serraj, non riesce ad avere legittimità. Viene considerato un’imposizione dall’esterno sia dal governo di Tripoli, quello islamista moderato, sia da quello di Tobruk, uscito vincitore dalle elezioni del 2014 e riconosciuto legittimo dalla comunità internazionale fino a prima che la crisi precipitasse.
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No di Tripoli e Tobruk al piano Onu. Tripoli fa sapere la propria disponibilità ad accettare che il governo di unità nazionale si insedi nella capitale libica, ma precisa che non verrà ceduto a Serraj «nessun potere». Dal canto suo anche Tobruk chiede che il futuro capo del governo «rispetti la legge e attenda la fiducia del Parlamento prima di iniziare a lavorare», facendo un chiaro riferimento al fatto che pochi giorni fa il nuovo governo che dovrebbe, secondo le nazioni Unite, guidare la Libia verso la pace aveva sancito l’entrata in funzione dell’esecutivo. Ma l’ha fatto da Tunisi, dove si trova in esilio in seguito al fatto che nessuno dà a Serraj e colleghi l’autorizzazione a entrare in Libia.
L’intervista di Al Sisi. A peggiorare le cose ci si è messa anche l’intervista che il presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi ha rilasciato a Repubblica, e nella quale tra le altre cose avverte l’Italia del rischio che la Libia diventi una «nuova Somalia» per Roma. «L’intervento in Libia? Voglio essere molto sincero, perché l’Italia è un paese amico dell’Egitto ed entrambi siamo molto interessati alla sicurezza nel Mediterraneo. Prima di tutto bisogna chiedersi: qual è la exit strategy?», ha detto Al Sisi. Parole che suonano come un monito e che sollevano una serie di interrogativi da cui non si può prescindere. Perché le regole di guerra vogliono che quando si invade un Paese ci si debba anche occupare del suo futuro. Ma le parole di Al Sisi suonano anche come una minaccia. Perché l’Egitto ha precisi interessi di supremazia e controllo sul Paese confinante, che nel caso di un intervento militare verrebbero messi in serio pericolo.
La reazione. Quanto Al Sisi ha dichiarato a Repubblica non è passato sotto silenzio in Libia, e pronta è stata la risposta del ministro degli esteri del governo di Tripoli, che ha parlato di violazione delle risoluzioni Onu e di appoggio a un uomo che si è macchiato di gravi crimini di guerra. Anche perché Al Sisi la soluzione alla tutela della sicurezza ce l’ha, e si chiama Khalifa Haftar, il generale ex amico di Gheddafi che da tempo combatte nell’Est libico per riconquistare Bengasi guidando una milizia sostenuta e armata dall’Egitto. A oggi Haftar è uno dei principali ostacoli alla costruzione di un governo unitario, e da quando è tornato in Libia nel 2011 dopo la parentesi ventennale americana, la sua lotta all’islamismo ha aggravato la frattura settaria tra le milizie libiche.
[Il muro costruito dalla Tunisia al confine libico]
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Quattro governi. Di fatto oggi in Libia l’entità statale non esiste più, e il Paese è in balìa di lotte tribali. E se fino a poco tempo fa c’erano due governi, oggi ce ne sono quattro: quello di Tripoli, quello di Tobruk, quello sancito dall’Onu e quello dell’Isis, che ormai ha preso il pieno controllo della città di Sirte e di oltre 250 chilometri di costa.