Gemelli infermieri: dalla paura del terremoto dell’Aquila alla lotta contro il Coronavirus
Andrea e Simone Buttari di Avezzano da cinque anni lavorano nel reparto di Nefrologia e Dialisi all’ospedale di Seriate
di Ezio Pellegrini
La paura l’hanno già elaborata undici anni fa, quando, studenti all’Università dell’Aquila hanno vissuto il terribile terremoto che ha distrutto la città abruzzese e fatto migliaia di vittime, compresi molti giovani studenti loro amici. Era il 6 aprile 2009 e di anni ne avevano 21. I gemelli Andrea e Simone Buttari e il loro amico Lorenzo Falcioni di Avezzano, paese della Marsica della provincia aquilana, oggi di anni ne hanno 32 e sono chiamati a vivere un’altra esperienza forte, che li mette a dura prova fra paura e morte: quella del Coronavirus.
Laureati in Scienze infermieristiche, cinque anni fa sono saliti a Bergamo, dove hanno trovato lavoro nel reparto di Nefrologia e Dialisi dell’Ospedale Bolognini di Seriate. Da quando a Bergamo è scoppiata l’epidemia del Covid-19 Il «Bolognini» è stato elevato a centro specializzato per la cura del Coronavirus. E da febbraio per chi ci lavora è cambiato tutto. «Quando si è cominciato a parlare della zona rossa di Codogno abbiamo capito che qualcosa stava succedendo anche da noi, ma non immaginavamo un uragano di questo tipo. In poco tempo siamo stati travolti. È cambiato tutto: il modo di lavorare, i turni, i protocolli di sicurezza. Ci ha preso anche un po’ di timore». Andrea e Simone, sono due gemelli di tre, Matteo è rimasto ad Avezzano con la famiglia e il quarto fratello, Francesco. Vivono da soli in un appartamento nella zona di Borgo Palazzo in città. Dalle loro finestre hanno assistito al primo corteo funebre dei camion dell’Esercito che trasportava le bare dei defunti dal cimitero di Bergamo verso l’Emilia.
«Quello è stato un momento che non dimenticheremo mai. Lì abbiamo capito realmente il dramma di quanto sta accadendo. Al telegiornale sentiamo raccontare dei numeri, ma nell’ospedale viviamo ogni giorno la tragedia con i nostri malati. Tutti i colleghi, medici e infermieri, sono tesi a uno sforzo enorme. Soprattutto nei reparti di terapia intensiva. Noi lavoriamo nel reparto di Nefrologia e dialisi; abbiamo pazienti che già soffrono di una patologia seria, e se si aggiunge anche il Coronavirus diventa veramente complicato gestire il tutto. Da aggiungere che i pazienti sono soli. Siamo gli unici, e a volte gli ultimi, a dare loro un gesto d’affetto che si aspetterebbero soprattutto dai loro cari».
Ovviamente il pensiero va anche a casa, alle famiglie che vivono ad Avezzano. Quest’anno naturalmente non potranno tornare per Pasqua. «Abbiamo l’impressione che fuori dalla Lombardia non vi sia la percezione reale di quanto sia pericoloso questo virus. Ci raccomandiamo con i nostri familiari e gli amici invitandoli a tenere alta la guardia e a non cedere alle tentazioni di uscire di casa».
Quando al mattino entriamo in reparto e iniziamo il turno ci facciamo coraggio e la paura sparisce. Veniamo assorbiti dalle necessità dei pazienti. Ci dedichiamo a loro con dedizione e arriviamo a fine turno senza renderci conto di quanto tempo sia trascorso. Nella normalità ci troviamo di fronte a pazienti che guariscono; oggi spesso però non è così. Ci sentiamo impotenti e non sappiamo quando tutto questo cesserà. Quando finisce il turno non vediamo l’ora di tornare a casa per riposare. Osserviamo l’isolamento come tutti. Facciamo la spesa ogni dieci giorni». Negli occhi di questi infermieri si fissano gli occhi impauriti dei pazienti che stanno soffrendo e nel cuore le cicatrici dei drammi come quello di un giovane papà, sopraffatto dal virus, che pochi giorni fa ha dovuto lasciare moglie e due figli senza neppure un bacio d’addio.