Il duro (e folle) decalogo del M5S C'era una volta il governo del popolo

In vista delle elezioni comunali di Roma, che si terranno questa primavera insieme a quelle di diverse altre e importanti città italiane, i vertici del M5S hanno redatto un decalogo a cui i candidati al Campidoglio grillini e l'eventuale sindaco eletto dovranno rigidamente attenersi, con tanto di pesanti sanzioni economiche previste. Senza perdersi in tentennamenti, non si può non sottolineare come questo documento sia decisamente duro, a tratti quasi folle: vengono imposte regole di comportamento, di azione, di soggezione totale alle decisioni dei “garanti” del Movimento (ovvero Grillo e Casaleggio) e del suo direttorio, accantonando ogni possibilità di libera iniziativa nonché, parrebbe, tradendo il principio sovrano pentastellato del “governo del popolo” in favore di una direzione esclusivamente appannaggio dei gradi alti del partito. E chi sgarra prepari un assegno da 150mila euro.
Le 10 regole imposte. Il documento contenente questo discussissimo decalogo (liberamente consultabile sul blog di Grillo, qui) è stato redatto dal pugno di Roberta Lombardi, fervente deputata del M5S, dietro ispirazione di Gianroberto Casaleggio, che dopo il passo indietro compiuto da Beppe nelle scorse settimane ha decisamente intensificato il proprio contributo alla vita del Movimento. Il primo punto si sofferma sulla campagna elettorale, specificando che tutti i candidati pentastellati saranno tenuti a sostenere non la propria persona, ma in generale tutto il partito, rimettendo alla causa comune qualsiasi tipo di finanziamento. Il punto 2 detta alcuni principi a cui dovrà attenersi il futuro gruppo comunale del M5S, specificando il divieto di unirsi ad altre formazioni di diverso schieramento e altri obblighi vari, fra cui uno davvero inspiegabile: ogni proposta «di atti di alta amministrazione e le questioni giuridicamente complesse» dovranno essere demandate al parere e al giudizio dei «garanti del Movimento», cioè Grillo e Casaleggio, al fine di garantire i principi di legalità, imparzialità e trasparenza. Come a dire: finché si tratta di tappare una buca fate pure, ma quando le cose si fanno serie decidiamo noi. Una preventiva manifestazione di disistima e di autoritarismo.
La comunicazione. Dopo un punto 3 legato al rispetto dei principi del Movimento, ecco il punto 4: la costituzione «dello staff di comunicazione delle strutture di diretta collaborazione politica degli eletti sarà definita da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio»; e, come se non bastasse, la scelta viene giustificata al fine di «garantire una gestione professionale e coordinata di detta attività di comunicazione». Anche in questo caso, è evidente la completa sfiducia nei confronti dei candidati per quanto riguarda la comunicazione dell'operato, oltre che la volontà di gestire in prima persona quello che il popolo della rete dovrà sapere circa quanto accade in Comune.
Trasparenza e proposte dalla rete. Il punto 5 è dedicato alla trasparenza, con regole che obbligano gli eventuali eletti a giustificare in video tutte le scelte compiute durante l'attività di consiglieri (o di sindaco, in caso di vittoria), mentre il punto 6 alla precedenza che dovrà essere tenuta nei confronti delle proposte provenienti dalla rete. Ma al punto 7 arriva un nuovo carico da novanta: «Le proposte di nomina dei collaboratori delle strutture di diretta collaborazione o dei collaboratori dovranno essere preventivamente approvate a cura dello staff coordinato dai garanti del Movimento». In pratica, eventuale sindaco e consiglieri eletti non avranno la libertà nemmeno di poter scegliere i propri collaboratori e lo staff con cui lavorare, ma dovranno sottoporre le proprie preferenza al giudizio dei «garanti».
E poi ci sono le sanzioni. Il punto 8 non esiste (semplice errore o direttive da non mostrare pubblicamente?), ma si passa direttamente al 9, ovvero uno dei capitoli più spinosi: le sanzioni. Già, perché per coloro che non si dovessero attenere a tutte quante le regole sopra indicate saranno guai. Anzitutto, coloro che dovessero anche solo finire iscritti nel registro degli indagati, una volta eletti, saranno tenuti a dimettersi: e va bene, fa a pugni con la presunzione di innocenza dettata dall'articolo 27 della Costituzione, ma tant'è. Ma gli eletti dovranno dimettersi anche semplicemente nel caso in cui non risultassero adempienti anche solo ad una virgola di questo decalogo, previo giudizio insindacabile dei “garanti” o del popolo del web (attenti bene: “o”, non “e”, differenza non irrilevante). Non solo, le dimissioni scatteranno anche nel caso in cui almeno 500 iscritti al Movimento residenti in Roma ne faranno richiesta, previa approvazione della rete. Alla mercé della carneficina digitale, insomma.
I 150mila euro. Dulcis in fundo, l'ormai celebre punto 10, secondo il quale chiunque violerà le regole di questo codice, oltre all'obbligo di dimettersi, dovrà anche pagare una multa al Movimento di almeno 150mila euro, per «grave danno all'immagine del M5S». Riassumendo, dunque, un eventuale consigliere comunale di Roma eletto nella lista dei 5 Stelle rischia di perdere il posto e di dover pagare 150mila euro di ammenda qualora dovesse, ad esempio, votare per qualcosa che non sia la rimozione di una panchina senza prima aver ricevuto il permesso dai vertici del partito, ovvero esercitando le sue legittime facoltà nel rispetto dei principi di indipendenza e imparzialità. A ciascuno un libero giudizio.
Le reazioni. Dall'interno del Movimento fanno sapere di essere pienamente convinti di questo codice: secondo Roberta Lombardi «se ti candidi con noi prendi un impegno per questa città. Astenersi perditempo», mentre Luigi Di Maio giustifica il tutto sostenendo che il M5S è sempre stato dalla parte del vincolo di mandato, e che «se tutti avessero fatto come noi, in Italia non avremmo avuto governi fondati sul tradimento del mandato elettorale. Quindi oggi non avremmo leggi infami come la legge Fornero o la legge Boccadutri. I traditori li lasciamo al Pd. Che ne fa incetta mese dopo mese. Qui conta il rispetto del programma e dei nostri principi, anche a rischio di perdere consensi». Per Serenella Fucksia, ex senatrice grillina confluita nel Gruppo Misto, «Per sindaco di Roma meglio un uomo che come tale può sbagliare che un burattino etero-diretto. Dai grandi ideali per una democrazia più estesa e partecipata a una deriva più che autoritaria direi folle. Ma anche un po' paracula. A chi andrebbero infatti gli introiti delle multe?». Dure le critiche mosse dalla direzione del Pd: «La Casaleggio e associati scopre le sue carte: vuol mettere le mani sulle città. Un ricatto ai candidati per determinare dalle sue stanze tutto ciò che riguarda l'amministrazione, dalla giunta fino a chi affidare gli appalti. L'imbarazzo e i soliti balbettii di Di Battista, l'unico romano del direttorio, confermano l'opacità del loro modo di agire».