La Cassazione sulla cannabis: si può coltivare per uso personale

«Non costituiscono reato le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica»: sono le parole contenute nella sentenza della Corte di Cassazione, nella sua forma più autorevole, quella delle Sezioni unite penali: a tema la libertà di coltivare marjuana per uso privato sul terrazzo o nel giardinetto di casa. Spiega la sentenza infatti che questa «attività di coltivazione che per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante e il modesto quantitativo di prodotto ricavabile appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore». È una sentenza che sorpassa il legislatore, alle prese con divisioni politiche che bloccano ogni decisione che non sia la riaffermazione dello status quo. Ma che apre anche un conflitto rispetto ai pronunciamenti fatti dalla Corte Costituzionale, che più volte è intervenuta sul tema, sempre seguendo la linea coerente della pericolosità per la salute delle persone dell’«erba». Il principio stabilito era semplice: la coltivazione di cannabis è sempre reato, a prescindere dal numero di piantine e dal principio attivo ritrovato dalle autorità, anche se la coltivazione era per uso personale. La motivazione addotta dalla suprema corte era lineare: «La condotta di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti - sostenevano i giudici - può valutarsi come “pericolosa”, ossia idonea ad attentare al bene della salute dei singoli, per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima e quindi di creare potenzialmente più occasioni di spaccio». Per questo la Cassazione fino ad ora aveva sostenuto che la coltivazione di marijuana, anche se per piccolissime dosi (una o due piantine) è sempre reato, a prescindere dallo stato in cui si trovi la pianta al momento dell'arrivo del controllo.
Ora invece si assiste ad un ribaltamento. «Sentenza choc» ha titolato non a caso Avvenire, che ha ricordato i dati allarmanti contenuti nella Relazione del Dipartimento antidroghe fatta davanti al Parlamento poche settimane fa: la cannabis è la sostanza più diffusa in assoluto, con un terzo dei ragazzini che l’hanno consumata almeno una volta, 150mila fra questi a rischio e una «iniziazione» scesa ai 15 anni.
«La cannabis crea dipendenza, è dannosa e il parlare in modo inadeguato di “uso ricreativo” (così come di “uso domestico”) abbassa la percezione della sua pericolosità», hanno dichiarato compatte le comunità di recupero, chiedendo al governo una riforma del testo unico sulle dipendenze. Peccato che il governo in questo momento non abbia ancora affidato le deleghe in materia a un sottosegretario. Così nel vuoto lasciato dalla politica si inserisce questa sentenza della Cassazione che in tanti applaudono come «storica» e che prepara altre possibili aperture rispetto al consumo delle droghe leggere. È una sentenza perfettamente in linea con quel modello disegnato dal libro di Luca Ricolfi, uscito proprio poche settimane fa e che legge l’Italia di oggi come «società signorile di massa». È un’idea di Paese dove ciascuno rivendica il diritto a un «godimento privato» e non tira mai le conseguenze collettive di questo stile di vita. Più che l’oggetto in sé della sentenza della Cassazione, quello che deve far pensare è questa persistente egemonia dei piccoli egoismi di massa. Un’egemonia che rende piacevole l’oggi e distrugge le chance del domani.