La guerra fratricida nel centrodestra che con Roma c'entra molto poco
La bomba ad orologeria è infine esplosa. È stato sufficiente che la lancetta toccasse il punto che tutti si aspettavano potesse esserne il detonatore: una tornata elettorale. Dopo mesi di corteggiamenti forzati, dichiarazioni di circostanza e abbracci sfacciatamente gelidi, i tre leader del centrodestra hanno definitivamente dato il via alla guerra fratricida. Non proprio un tutti contro tutti, anzi, gli schieramenti sono ben delineati: Matteo Salvini e Giorgia Meloni da una parte, Silvio Berlusconi dall'altra. Il terreno dello scontro è Roma, la posta in gioco il Campidoglio, prodromo di un trofeo di guerra ben più significativo: le redini di una forza politica che, a dire il vero, più che di un cocchiere avrebbe bisogno di un abile artigiano in grado di ricostruire da capo la carrozza prima ancora di lanciarsi al galoppo verso successi che, ora come ora, sembrano completamente fuori portata.
Ma che succede a Roma? Se oggi, mercoledì 16 marzo, ci si ponesse la domanda su chi sia il candidato del centrodestra per le comunali di Roma, il dibattito avrebbe più o meno questo tenore:
«Bertolaso, no?»
«Sì, ma è il candidato solo di Berlusconi»
«Ma non ha vinto le primarie del centrodestra?»
«Quali, quelle a cui Lega e Fratelli d'Italia non hanno partecipato?»
«E dunque che faranno gli altri?»
«Candidano la Meloni»
«Ma non aveva rinunciato?»
Ci ha ripensato»
«Va bene. Peccato comunque, a me piaceva Marchini»
«Forse si candida anche lui»
«E con chi?»
«Con il centrodestra, no?»
«Ma non c'era Bertolaso? Anzi scusa, la Meloni, cioè, se si decide»
«Mah, bisogna anche capire cosa faranno di Storace e della Pivetti»
«......»
Tra Bertolaso e Meloni. C'è poca finzione letteraria in questo dialogo, le cose stanno proprio così. In sintesi: Berlusconi tira dritto con Bertolaso, che dopo esser stato digerito di malavoglia da Salvini e dalla Meloni è stato scaricato in particolare dal primo, il quale ha addotto come scusa una differenza di vedute sulla questione dei campi rom, quando in realtà il punto è: caro Silvio, io ho più voti di te e quindi lo decido io il candidato. Nel mezzo c'è Giorgia Meloni, che di voti ne ha pochi, in generale, ma dalla sua ha il fatto di essere una figura molto forte a Roma. Dopo aver inizialmente deciso di lasciar perdere la corsa al Campidoglio, essendo incinta, negli ultimi giorni ha cambiato idea, entrando a pieno titolo nella congiura di Salvini, che come ogni Bruto ha bisogno del suo Cassio per attentare alla leadership tirannica di Silvio Cesare. E ieri, che curiosamente era proprio il 15 marzo ovvero il giorno delle famose Idi di marzo in cui Giulio Cesare venne ucciso, il tradimento si è consumato: la Meloni lascia intendere che sì, si candiderà a sindaco di Roma, e proprio questa mattina ne ha dato l'ufficialità. Una pugnalata dritta nella schiena di Berlusconi, che se per il momento non fa vacillare il boss di Forza Italia perlomeno ha squarciato irreparabilmente il triumvirato del centrodestra. E adesso?
Cosa c'è davvero in palio. Come accennato, il casus belli è la candidatura di Bertolaso e le elezioni romane, ma si tratta di una semplice e dantesca donna schermo, poiché la Beatrice a cui tutti aspirano è il comando del centrodestra. Salvini ne ha “siffatte ciufole” di dover rispondere e sottostare a un leader e a un partito che esagerando hanno la metà del suo consenso; occorreva al più presto un buon pretesto per prendere le distanze da Berlusconi, rivendicare la propria autorità in maniera perentoria e rivoluzionaria: quale occasione migliore delle amministrative di una città, Roma, il cui risultato tutto sommato non interessa a nessuno e che viene considerata esclusivamente come crocevia per ribilanciare gli equilibri politici interni? La Meloni, da par suo, ben sa di non poter fare la voce grossa tutta sola, poiché elettoralmente conta ancora poco, e altrettanto smaniosa di mettere Silvio in soffitta ha ben pensato di stringere alleanza con Salvini, e per questioni di opportunità politica e per una comune venduta di spostare il fulcro del centrodestra un po' più verso destra e un po' meno al centro. Le svolte populiste e un po' estremiste delle recenti tornate elettorali francesi e tedesche hanno convinto Matteo&Giorgia che i tempi sono maturi per il parricidio. Berlusconi, infine, sapeva bene che l'imposizione della candidatura di Bertolaso avrebbe rappresentato un Rubicone dal quale difficilmente si sarebbe potuti tornare indietro, e ora ha di fronte due strade: mollare l'ex capo della Protezione Civile e deglutire candidatura e sostegno alla Meloni, e dunque ammettere pubblicamente che la guida del centrodestra non è più affar suo (sinceramente: ce lo vedete?), oppure tirar su le trincee e mostrare a quegli ingrati figli adottivi che il capo è e sarà ancora lui per parecchio tempo. Ipotesi d'azione, quest'ultima, decisamente più probabile. Che poi né Bertolaso, né la Meloni, né Marchini, né Storace, né Dudù riusciranno a prevalere su Raggi o Giachetti, è irrilevante: ciò che conta a Roma, oggi, è stabilire definitivamente chi comanda.