i giorni del dolore

La lettera di Chiara al padre in cielo: «Ogni sera stringo la tua berretta. Sei qui vicino»

La giovane donna racconta la vicenda della sua famiglia, colpita dallo «stupido virus». «Alle 3 di notte mi sveglia la chiamata di mia mamma. Arrivano gli operatori, ci dicono che all’ospedale non lo avrebbero intubato. Allora decidiamo di tenerlo a casa con noi»

La lettera di Chiara al padre in cielo: «Ogni sera stringo la tua berretta. Sei qui vicino»
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«Volevo raccontarvi la mia triste storia» ci scrive Chiara, giovane donna di Albino. Come in un diario, racconta i giorni attraversati dal dolore per la perdita di suo padre, Gino, 74 anni di Pradalunga, vittima della pandemia che ha duramente colpito la nostra terra e seminato morte. «In una settimana ho perso un pezzo di cuore – scrive -, abbiamo perso un papà, un nonno, un marito».

«Volevo raccontarvi quanto incredibile possa essere la vita, così meravigliosamente bella e così imprevedibile da toglierti il fiato. Avevo un papà incredibile, anzi forse anche di più. Lui, 74 anni appena compiuti, aveva un cuore grande: aveva sempre una parola gentile per tutti, era stimato dalla gente che lo conosceva, era di ottima compagnia, amava l’orto, gli animali, i suoi cinque nipoti e tutta la sua famiglia. È sempre stato un gran lavoratore, turni in fabbrica e lavoro nei campi per la famiglia. È stato un orgoglioso donatore Avis, non ha mai avuto un problema di salute, mai un ricovero, mai un medicinale nella sua vita. Era il 15 marzo, tre giorni dopo il suo compleanno (purtroppo abbiamo potuto festeggiare con una semplice videochiamata ma con la certezza che avremmo recuperato i festeggiamenti appena tutto questa odissea sarebbe finita), quando inizia a non stare bene. Niente di grave, sembrerebbe. Diceva di sentirsi debole ed era inappetente. Nessuno di noi pensava al virus. Era molto ligio al dovere ed era già da un po’ che non usciva di casa, inoltre non presentava né febbre né difficoltà respiratorie».

«Da quel giorno però sempre peggio. La situazione non migliora, anzi, un pomeriggio perde i sensi per qualche secondo così chiamiamo l’ambulanza. Tempestivamente arrivano, non possono fare molto ma cercano di controllare almeno pressione, battuti e saturazione. Scopriamo che questa è molto bassa e ci invitano a procurarci ossigeno prima possibile. Contattiamo il medico di base che ci prescrive ossigeno, antibiotico e un altro farmaco, oltre al classico paracetamolo in caso si manifestasse anche la febbre. Niente di più. Ecco quello “stupido virus”, come lo ha chiamato mio figlio, era riuscito ad attaccarsi al mio papà. Anche se nessuno lo dice chiaramente, anche se non avremo mai le prove, sappiamo benissimo che si è tratto proprio di lui. Papà ha la fortuna di avere accanto tre donne che lo coccolano e così lo curiamo noi a casa. Lui ride, scherza, è sempre più affaticato ma ha sempre il suo sorriso. “Dai papà ti devi riprendere altrimenti chi si occupa dell’orto e della legna della stufa? Chi prepara la tua carbonara ai nipotini?”».

Gino Carrara aveva 74 anni

«Tutto rimane stabile fino a domenica 22 marzo. Alle 3 di notte mi sveglia la chiamata di mia mamma. Sai quelle chiamate che un po’ ti aspetti ma che quando arrivano ti fanno tremare il cuore. Ovviamente non sono belle notizie: mamma mi dice che lei e mia sorella avevano appena chiamato l’ambulanza perché papà aveva iniziato una crisi respiratoria. Con la paura nel cuore, tremante e preoccupata, arrivo da mio papà. Le altre due donne di casa erano con lui e l’ambulanza era appena arrivata. Non potevo crederci ma avevo ancora tanta speranza. Gli operatori (davvero fantastici, sia a livello umano che professionale) misurano livelli di ossigeno e pressione. Ci comunicano che l’avrebbero portato all’ospedale Papa Giovanni XXIII ma ci avvisano subito che di posti non ce ne sono e, vista la sua età, non l’avrebbero intubato: le cure che avrebbe potuto ricevere in ospedale erano le stesso che avrebbe ricevuto a casa. Decidiamo di tenerlo a casa con noi. Se è così che deve andare, almeno resterà tra le nostre braccia. Attiviamo il protocollo per le cure palliative e alle 4.30 gli somministrano la prima dose di morfina. Sono certa che sentivi la presenza delle sue donne di casa».

«Una lacrima ha solcato il tuo viso, ci sentivi lì con te, non te ne volevi andare; noi non ti abbiamo mai lasciato, ti abbiamo tenuto la mano fino all’ultimo respiro. Ti abbiamo coccolato, parlato e sì, anche un po’ sgridato, come facevamo sempre. Hai lasciato un vuoto che difficilmente potrà essere riempito. In una settimana ho perso un pezzo di cuore, abbiamo perso un papà, un nonno, un marito. Abbiamo perso il nostro punto fermo. Ti abbiamo promesso che saremmo state forti e che non avremmo pianto ma è troppo difficile senza di te. Ogni tanto, di notte, penso di essere in uno dei mie soliti brutti sogni. Non c’è giorno, ora, che non ti pensi. Sul mio comodino ho la tua berretta con il tuo profumo e ogni sera la stringo forte e sento che sei un po’ più vicino a me. C'è una frase del libro “Il piccolo principe” che penso spesso: “Non so dove vanno le persone quando scompaiono, ma so dove restano”. Papà ti vogliamo bene».

«Volevo ringraziare gli operatori dell’ambulanza per la professionalità e l’umanità che hanno dimostrato, ringrazio il medico del pronto soccorso che ci ha accompagnato nell’ultimo momento per le parole di conforto e per ogni singolo gesto che ci ha riservato. Davvero un uomo lodevole. Grazie».

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