La moglie di Pietro Pippa racconta quei cento giorni: «Ci salutava con il piede alla finestra»
È stato festeggiato da amici, vicini e colleghi al rientro a casa, venerdì scorso. Ha perso un po’ le parole, fa fatica a parlare, ed Elena si offre di raccontare quei lunghi, interminabili giorni
di Monica Sorti
Crederci sempre, arrendersi mai. Anche se la voce è ancora debole e le forze stanno ritornando piano piano, la serenità è quella di chi ce l’ha fatta. Venerdì 26 giugno Pietro Pippa è tornato a casa, dopo quasi cento giorni di battaglia contro il Covid. Ad accompagnarlo la moglie Elena e Giulia, la figlia quindicenne. Ed è stata subito festa con amici, parenti, vicini di casa e colleghi di lavoro, che l’hanno accolto in un abbraccio ideale. Con loro c’era anche il parroco di Treviolo don Massimo Locatelli che in questi lunghi mesi è stato molto vicino alla famiglia. Oltre ovviamente agli amici del GAM La Casella che, capitanati dal presidente Claudio Dossi, hanno organizzato una festa di accoglienza a sorpresa. Talmente “a sorpresa” che neppure Elena si aspettava nulla. «Avevo capito che il condominio era intenzionato a fare un cartello di benvenuto, ma pensavo che sarebbe finita lì. Invece, arrivati alla rotatoria che immette nella nostra via, c’era tantissima gente che applaudiva e io non ho capito più nulla. È stata un’emozione fantastica vedere l’affetto di tante persone che avevano piacere di rivedere Pietro, di starci vicini. Una gioia immensa, da farci scoppiare il cuore».
Pietro fa fatica a parlare, ed Elena si offre di raccontare quei lunghi, interminabili giorni. Mi sento in colpa a rubarle del tempo, quando già sono stati privati di tanti momenti, ma lei mi tranquillizza: «È stato un incubo, ma adesso che è finito fa quasi piacere raccontarlo. Dà speranza a quelli che stanno vivendo la nostra situazione».
L’inizio
Siamo alla metà di marzo quando Pietro comincia la sua battaglia per la vita. Un po’ di febbre e di stanchezza, diagnosticati dal medico del 112 come crisi di ansia. Il 20 marzo viene poi visto dal medico di base. La sua saturazione è buona, intorno ai 96, per cui si pensa ancora che la sua sia proprio solo paura del virus. Ma verso le 22 di quello stesso giorno comincia a stare male e chiede di essere accompagnato al pronto soccorso. «E meno male, perché lì l’hanno subito preso in cura - racconta Elena -. È stato ricoverato in Pneumologia, ma dopo dieci giorni il suo polmone è collassato». Pietro viene intubato, passa in terapia intensiva e, per un problema causato da un catetere alla vena che porta alla carotide, viene sottoposto a un intervento vascolare. «Nel frattempo le cose vanno meglio e il polmone, verso il 15 aprile, sarebbe pronto per essere estubato».
Ma a causa dell’intervento si è formato un ematoma di 10 centimetri che comprime sulla trachea ed estubarlo gli causerebbe problemi di respirazione. Sono riusciti a farlo a fine aprile, con una tracheotomia che gli ha disturbato la corda vocale sinistra. «Ci hanno detto che ci vorranno mesi ma, con la logopedia, tornerà ad avere la sua voce».
Medici o angeli
In tutti questi lunghi giorni Pietro è sempre rimasto al Papa Giovanni. «I medici sono stati degli angeli, delle persone meravigliose - racconta Elena -. Mi chiamavano tutte sere e mi spiegavano nei dettagli quello che stava succedendo. Hanno attivato anche uno sportello psicologico per aiutare me e Giulia ad affrontare questo momento. È brutto da dire, perché è meglio non averci a che fare, ma nel caso capitasse si trovano delle persone fantastiche».
Elena e Giulia hanno rivisto Pietro per la prima volta tre settimane fa, quando è stato trasferito alla Casa degli Angeli. «Al Papa Giovanni non l’abbiamo mai potuto incontrare. Quando ha cominciato a stare un po’ meglio facevamo le video chiamate, e già mi sembrava un miracolo». Quando, dopo quasi due mesi Pietro è uscito dalla terapia intensiva, non riusciva neppure a stare seduto nel letto. «Io e Giulia, andavamo a trovarlo, se così si può dire». Perché il loro andare a trovarlo consisteva nello stare sotto la sua finestra della Pneumologia alla Torre 2. «Lo avvisavamo al telefono che eravamo lì e vedevamo il suo piedino che si muoveva, per mandarci un saluto. Perché non ce la faceva ad arrivare alla finestra. Questo tutti i giorni per due volte al giorno. Lui stava soffrendo così tanto, era lì da solo e non volevamo abbandonarlo. Era il nostro modo di stargli vicino, il nostro momento di contatto».