La triste storia dei profughi di Bikini da 70 anni con una valigia in mano
Dal 30 novembre all’11 dicembre, a Parigi, le Nazioni Unite terranno la 21esima Conferenza delle Parti sui cambiamenti climatici. Tra i tanti temi caldi, uno preme con particolare insistenza: l’innalzamento del livello dei mari, che sta mettendo a serio pericolo il futuro di molte popolazioni che vivono nei meravigliosi atolli sparsi per gli oceani. Anzi, il destino di queste terre, ahinoi, è già segnato: scompariranno, inghiottite dalle acque che oggi le rendono così uniche e belle. Meno segnato è invece il destino di chi quelle terre le abita. Migliaia di persone, per la maggior parte povere, che si troveranno senza più una patria. Tra queste popolazioni c’è anche quella di Bikini, un atollo delle isole Marshall.
I bikiniani sono un popolo che da decenni non sa più cosa significhi la parola “casa”. La valigia sempre sotto il letto, pronti a scappare, rinascere, riprovarci. A raccontare la loro storia è National Geographic, un’infinita diaspora iniziata il 10 febbraio 1946. È la data in cui nell’atollo di Bikini arrivò il commodoro Ben H. Wyatt, inviato dalla Marina statunitense alle Isole Marshall per annunciare lo svolgimento di alcuni test nucleari nella laguna. Gli allora 167 bikiniani furono costretti dagli Usa ad abbandonare la loro terra, con la promessa che avrebbero potuto tornarci non appena sarebbero finiti i test. Del resto la pace nel mondo, allora, passava per le armi nucleari secondo i più. Potevano forse opporsi a questa decisione una manciata di poveri pescatori del Pacifico? Fu così che gli abitanti di Bikini si trovarono costretti a fare armi e bagagli e a trasferirsi nell’atollo di Rongerik, distante circa 200 chilometri da quella che, fino a quel momento, era stata la loro casa.
I bikiniani non erano contenti. Certo, nessuno lo sarebbe se si vedesse costretto ad abbandonare la propria terra da un giorno all’altro. Ma per loro c’era un motivo in più: l’atollo di Rongerik, infatti, era la dimora della strega Ujae, essere malvagio e tremendo per la mitologia locale. Per questo le popolazioni micronesiane non l’avevano mai colonizzato. I bikiniani dovettero scendere a patti con le loro paure e rimboccarsi le maniche per ricominciare una vita. Ad attenderli non trovarono nessuna strega cattiva, ma solo terre aride e prive di acqua potabile. Poco conta per una popolazione di pescatori, c’è sempre il mare dalla loro parte. Peccato che i test nucleari attuati dagli americani alle Isole Marshall causarono una moria di pesci senza precedenti, che costrinse i bikiniani ad abbandonare anche quell’ultimo appiglio che gli era rimasto alla loro tradizione. Passarono le settimane, i mesi. La gente era stanca, affamata e assetata. Gli americani dovettero prendere atto che la radioattività conseguente ai loro test rendeva impossibile un rimpatrio nell’atollo di Bikini, ma anche che la vita nell’atollo di Rongerik era praticamente impossibile. Per questo i 40 clan di Bikini furono sistemati in una tendopoli nei pressi dell’aeroporto militare di Kwajalein per poi essere portati, 6 mesi dopo, nell’isola disabitata di Kili. Il governo degli Stati Uniti, inoltre, offrì come risarcimento un fondo fiduciario collettivo spendibile nelle Marshall per agevolarne la ricostruzione. In cambio (perché gli Usa non fanno mai niente per caso), gli abitanti cedettero i diritti dell’atollo di Bikini, che divenne ufficialmente un poligono militare.
Se a Rongerik le condizioni di vita erano dure, a Kili le cose non andarono molto meglio. La conformazione dell’isola costrinse i bikiniani a darsi all’agricoltura. E sebbene la terra fosse ben più fertile rispetto che a Rongerik, la scarsa superficie coltivabile non garantiva l’autosufficienza alla popolazione, che divenne quindi dipendente dai rifornimenti aerei. Presto le difficoltà portarono i clan allo scontro e buona parte dei bikiniani gettò la spugna: disse definitivamente addio alla acque del Pacifico ed emigrò negli Stati Uniti. Chi decise di restare resistette con caparbietà, guidato dal sogno di un ritorno a casa. Il sogno sembrò avverarsi nel 1968, quando l’allora presidente americano Lyndon B. Johnson annunciò la fine e dei test e l’impegno degli Stati Uniti in un piano di bonifica dell’atollo di Bikini per permettere agli abitanti di farvi ritorno. Ciò accadde nel 1974, ma passò poco tempo perché ci si rendesse conto che la bonifica totale di un sito nel quale si erano succeduti negli anni ben 23 test nucleari era null’altro che utopia: le concentrazioni di Cesio-137 nel corpo degli abitanti dell’atollo, poco tempo dopo il loro ritorno a Bikini, risultarono di undici volte superiori alla media. Nel 1978 si decise quindi per una nuova evacuazione dell’atollo e i bikiniani furono portati nuovamente a Kili, dove vivono tutt'oggi (nel 1999 la loro popolazione era stimata in 774 persone).
Ma pare proprio che il destino dei bikiniani sia beffardo e ingiusto, perché a 70 anni di distanza dalla loro prima diaspora (obbligata) si trovano costretti ad affrontare un nuovo nemico: l’innalzamento dei mari. Come spiega National Geographic, l’acqua marina spesso sommerge i villaggi di Kili, infiltrandosi nella falda acquifera e causando un eccesso di salinità nei suoli. La fragile agricoltura locale, già tormentata dai tifoni tropicali, è allo stremo, così come gli abitanti che nelle scorse settimane hanno presentato una petizione al Ministero degli Interni statunitense per rinegoziare il fondo fiduciario attualmente vincolato alle isole Marshall. La volontà dei bikiniani è abbandonare per sempre il Pacifico e investire il denaro del fondo per comprare delle case sul territorio americano. Pare proprio che l’unico modo in cui i bikiniani possano trovare la pace sia quello di abbandonare, per sempre, quelle terre e quelle acque a cui non hanno mai voluto dire addio.