Dal Giornale di Treviglio

«È il lavoro più bello del mondo» Cioè salvare vite in Rianimazione

«È il lavoro più bello del mondo» Cioè salvare vite in Rianimazione
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Continua dalla Rianimazione il viaggio del Giornale di Treviglio all’Asst Bergamo Ovest, dopo la prima puntata della rubrica dedicata al Pronto soccorso. Ogni anno salvano una media di 200 persone, i medici e gli infermieri del reparto  guidato dal primario Massimo Borelli.

Il racconto. «Le racconto il lavoro più bello del mondo». Dietro alla disordinata scrivania, il primario della Rianimazione di Treviglio Massimo Borelli porta un sorriso che potrebbe sembrare stonato, per il dirigente di un reparto come il suo, in cui la vita e la morte si incontrano e si intrecciano, su quei sette letti illuminati notte e giorno dalle luci al neon. Eppure è esattamente il sorriso giusto, ed è lo stesso che si trova sulle facce di tutti gli altri medici e infermieri, al primo piano. Perché «Rianimazione» non è un’iperbole. È un posto dove si salvano vite. Se non tutti i giorni, quasi.

Salvano 200 vite all’anno. Sono infatti circa 250 i pazienti acuti che ogni anno passano dalla Terapia intensiva trevigliese, pazienti che se varcano quella soglia è perché non ci sono alternative. La lotta qui è con il buio: con il disgregarsi lento della vita. Sepsi, insufficienze multi-organo. Polmoniti. Come la Legionella, che quest’anno è tornata anche a Treviglio. Otto casi, nel 2018, contro gli uno/due registrati di media. E il caso di Brescia non c’entra nulla. La statistica non è legge, ma i medici e gli infermieri lo sanno: una persona su cinque, più o meno, non ce la farà. Si lotta perché ci sono gli altri quattro: per salvare, conti fatti, circa duecento vite all’anno. Chiamale poche. Hai voglia a non dire: eroi.

Post-chirurgici appesi a un filo. Le vittime dei grandi incidenti, da anni ormai finiscono nei trauma center di Bergamo, Milano e Brescia, ma per la Terapia intensiva degli ospedali come quello di Treviglio restano due altri compiti fondamentali. Sono una settantina, ad esempio, le persone reduci dalla sala operatoria che vengono affidate al team di Borelli ancora appesi a un filo. E poi c’è l’attività di Anestesia, prima e dopo la sala operatoria ma anche in ambulatorio. Ci sono gli infartuati: una dozzina di casi l’anno, quelli che dopo l’Unità coronarica finiscono qui, per una lunga e delicata terapia che serve a minimizzare i danni cerebrali dovuti alla mancanza di ossigeno. E poi c’è la Terapia del dolore. Ancora una volta, la morte si sfiora. Milleottocento i pazienti trattati, e sorprendentemente solo meno di un terzo sono oncologici.

L’età media è in crescita. «Nel corso degli anni il nostro campo della Medicina ha fatto passi da gigante, ma soprattutto è cambiata in meglio l’assistenza sul territorio con la nascita dei “118” – spiega Borelli – Affrontiamo però i problemi legati all’invecchiamento del paziente medio. Se negli anni Settanta era di 55 anni, oggi è di 75. Ed è la normalità accogliere novantenni. Spesso ci troviamo quindi di fronte a problemi aperti, come quello del cosiddetto accanimento terapeutico». Lavorare a così stretto contatto con il limite estremo della vita non è sempre facile. «C’è un discreto turn-over, sia infermieristico che di medici – confessa Borelli – E la letteratura è piena di studi sul burn-out dei pazienti, e dei medici, da questo reparto. Ma è davvero il lavoro più bello del mondo. Salvare vite ci riempie di forza, anche se non sempre ci riusciamo. L’ultimo caso eclatante è stato quello che ha scosso tutta la Bassa: Mattia, il 18enne di Caravaggio morto a causa di un’infezione polmonare lo scorso inverno. Il team era sconvolto, siamo rimasti senza fiato anche noi, per settimane».

Una speranza dal buio. Fa riflettere, però, che è dalle stesse stanze in cui la morte bazzica ogni giorno che rinasce, ogni giorno, la speranza, nella forma della donazione di organi e di tessuti. È qui che, subentrata la morte cerebrale, scatta la corsa per salvare organi, ma anche ossa, cute, tessuti vari. La vita germoglia sempre anche dove non te l’aspetti. Ecco perché qui sorridono tutti.

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