Stuprata e uccisa dal califfo

Le ultime terribili rivelazioni dell'Fbi sulla prigionia di Kayla Mueller

Le ultime terribili rivelazioni dell'Fbi sulla prigionia di Kayla Mueller
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Kayla Mueller aveva 27 anni non ancora compiuti, il giorno della sua morte, il 6 febbraio 2015. Era rimasta prigioniera, nelle mani dei miliziani dell’Isis ad Aleppo, per 18 mesi. Ora, in questi ultimi giorni, i servizi segreti americani hanno diffuso notizie raccapriccianti sulla sua sorte: il califfo in persona l’avrebbe stuprata e torturata, considerandola di sua proprietà, prima di farla uccidere. Secondo quanto emerso, Kayla sarebbe così il primo ostaggio ad aver avuto un contatto diretto con il sedicente califfo.

Schiava anche di Abu Sayyaf. L’Fbi ha anche riferito che, prima del Califfo, Kayla era proprietà di Abu Sayyaf, uno dei leader dell’Isis, tesoriere e responsabile del contrabbando di petrolio e gas naturale. Pare addirittura che Al Baghdadi si recasse regolarmente in casa di Abu Sayyaf e prelevasse la ragazza per seviziarla e poi la riportasse indietro. Una notizia confermata anche dalla vedova di Sayyaf, che dopo la morte del marito è detenuta in un carcere del Kurdistan iracheno.

 

 

La denuncia della compagna di prigionia. Tutto è cominciato con la denuncia di una 14enne della comunità yazida, probabilmente l’altra schiava di Abu Sayyaf e sua moglie, quella di cui le cronache avevano parlato ai tempi dell’uccisione del miliziano. La ragazzina, riuscita a fuggire da quell’inferno, ha raccontato tutto all’intelligence americana che, dopo mesi di lavoro, ha potuto dare ai genitori di Kayla notizie più certe sulla sua prigionia.

Chi era Kayla. Nata a Prescott (Arizona), Kayla era un’attivista per i diritti umani. Dopo il diploma, aveva frequentato l’università e si era sempre battuta in prima linea per la difesa dei diritti umani. Una passione e un impegno che l’avevano portata a lavorare in India, con i rifugiati tibetani, e poi in Medio Oriente, a fianco prima dei palestinesi prima e dei rifugiati africani in Israele poi. Nel dicembre del 2012 aveva iniziato a lavorare nel sud della Turchia, assistendo i profughi siriani.

Il suo ultimo impegno lavorativo fu quello per l’agenzia umanitaria internazionale Support to Life: doveva aiutare, per un solo giorno, un collega di Medici Senza Frontiere, nell’ospedale di Aleppo. Sulla strada del ritorno, da Aleppo alla Turchia, il 3 agosto 2013 venne rapita dai miliziani dell’Isis. All’epoca il Califfo non si era ancora autoproclamato tale, per questo probabilmente Kayla passò sotto più carcerieri prima di arrivare sotto le grinfie di Al Baghdadi.

 

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Blitz e trattative per la liberazione. Gli americani si adoperarono per il suo salvataggio e quello di altri prigionieri, ma la missione di soccorso organizzata nel nord della Siria l’anno successivo fallì e gli ostaggi vennero trasferiti. Pare, però, che gli Usa avessero sempre saputo il luogo di prigionia della giovane donna, perché avviarono una serie di trattative per scambiare Kayla con un altro prigioniero. Il suo fidanzato, un ragazzo siriano, si finse suo marito pur di liberarla, ma Kayla lo smentì per non metterlo nei guai.

La notizia in chiave propagandistica della morte. Furono gli stessi miliziani a dare la notizia della sua morte, pubblicando una foto di un edificio danneggiato, probabilmente da un attacco aereo giordano, e sostenendo che Kayla fosse lì dentro nel momento del bombardamento. Una prova certa della sua morte, però, non venne fornita fino al 10 febbraio 2015, quando la famiglia della giovane annunciò che l’Isis aveva confermato la notizia in una e-mail, con tre fotografie del cadavere con il volto tumefatto. Il Consiglio di sicurezza nazionale Usa confermò l’autenticità del messaggio, anche se precisò che le circostanze della morte non erano chiare. Alla luce delle ultime scoperte, i lividi che Kayla aveva sul volto potrebbero essere opera del califfo.

La lettera alla famiglia. Nei mesi della sua prigionia Kayla ebbe occasione di fuggire, almeno così dice il Foreign Policy, «ma rimase in prigionia per aiutare un’altra occidentale, in cattive condizioni di salute». Ma quello che più di tutto è sintomatico della forza di questa ragazza acqua e sapone è una lettera che scrisse poco prima di morire, in cui cercava di fare forza alla sua famiglia, pur essendo probabilmente conscia di quello a cui stava andando incontro.

A tutti,
se state ricevendo questa lettera significa che sono ancora prigioniera ma i miei compagni di cella (a partire dal 2 novembre 2014) sono stati rilasciati. Ho chiesto loro di contattarvi e di mandarvi questa lettera. È difficile sapere cosa dire.
Sappiate che sono in un luogo sicuro, completamente incolume e in buona salute (ho messo qualche chilo infatti); sono stata trattata con il massimo rispetto e gentilezza. Volevo scrivere a tutti voi una lettera piena di riflessioni (ma non sapevo se i miei compagni di cella sarebbero partiti nei prossimi giorni o nei prossimi mesi, il che ha ridotto il tempo a disposizione) ma soprattutto ho potuto solo scrivere la lettera un paragrafo per volta, perché soltanto pensare a voi mi fa scoppiare in lacrime.
Se posso dire di aver sofferto durante tutta questa esperienza è soltanto perché so quanto vi sto facendo soffrire; non vi chiederò mai di perdonarmi, perché non merito di essere perdonata.
Ricordo che la mamma mi diceva sempre che alla fin fine l’unica cosa che ci rimane davvero è Dio. Sono arrivata in un punto della mia esperienza in cui, nel vero senso della parola, mi sono arresa al nostro creatore perché letteralmente non c’è nessun altro… e grazie a Dio e alle vostre preghiere mi sono sentita teneramente cullata in caduta libera. Mi è stata mostrata l’oscurità e la luce e ho imparato che anche in prigione si può essere liberi. Sono riconoscente.
Ho imparato a capire che c’è del buono in ogni situazione, a volte dobbiamo solo cercarlo. Prego ogni giorno che, se non altro, abbiate anche voi sentito una certa vicinanza e abbandono a Dio e abbiate formato un legame d’amore e supporto l’uno con l’altro…
Mi mancate tutti, come se fosse passato un decennio di separazione forzata. Ho avuto molte lunghe ore per pensare, per pensare a tutte le cose che farò con Lex, alla nostra prima gita di famiglia in campeggio, al primo incontro all’aeroporto. Ho avuto molte ore per pensare a come soltanto in vostra assenza sono riuscita finalmente a capire a 25 anni il mio posto nella vita.
Il dono che ciascuno di voi è per me + la persona che potrei o non potrei essere senza di voi nella mia vita, nella mia famiglia, come mio sostegno…. NON voglio che i negoziati per il mio rilascio siano una vostra incombenza. Se c’è un’alternativa, sceglietela, anche se ci volesse più tempo. Questo non avrebbe mai dovuto diventare un peso per voi. Ho chiesto a queste donne di aiutarvi: per favore chiedete il loro consiglio. Se non lo avete ancora fatto [CANCELLATURA] potete contattare [CANCELLATURA] che potrebbe avere una certa esperienza con queste persone.
Nessuno di noi poteva sapere che ci sarebbe voluto così tanto tempo, ma sappiate che sto anche lottando da questa parte nei modi in cui posso e ho ancora molta forza per lottare dentro di me. Non sto crollando e non cederò, non importa quanto ci vorrà.
Ho scritto una canzone, alcuni mesi fa, che dice: «La parte di me che duole di più è quella che spinge ad alzarmi dal letto, senza la vostra speranza non resterebbe nulla…». Cioè, il pensiero del vostro dolore è la fonte anche del mio, ma allo stesso tempo la speranza che saremo di nuovo insieme è quello che mi dà forza.
Vi prego di essere pazienti, di offrire a Dio la vostra sofferenza. So che volete che io sia forte. Questo è esattamente quello che sto facendo. Non abbiate paura per me, continuate a pregare e anch’io lo farò e per volere di Dio saremo presto di nuovo insieme.
Con tutta me stessa,
Kayla

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