Una fotogallery malinconica

Lo straziante contenuto delle valigie trovate dopo anni in un manicomio

Lo straziante contenuto delle valigie trovate dopo anni in un manicomio
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Willard è una cittadina dello Stato di New York, a mezzora di macchina da Lodi. Lodi dello stato di New York, ovviamente. Lungo la strada si incontrano Romolo (Romulus, in americano) e Ovidio (Ovid). Per uscire da Lodi verso Interlaken (l’Interlaken americana, posta come l’altra fra due laghi, il Finger Lakes e il Cayoga Lake) si prende Seneca Street. La strada di Seneca, che lo portò al suicidio.

A Willard è stato operativo, fra il 1869 e il 1995, il Willard Psychiatric Center, cioè il manicomio. Una volta chiuso, sono rimaste - dimenticate dentro l’edificio - 400 valigie, che il fotografo Jon Crispin ha deciso di aprire per rivelarne il contenuto. L’intero progetto è visibile sul sito del Willard Asylum Suitcases. Ma bisogna andarci piano ad aprirlo, perché si rischia di non uscirne più, di perdercisi come se si cercasse di spostarsi in macchina fra Lodi e Interlaken, Ovidio e Seneca, avendo in mente la geografia europea e la frequentazione del Classico che Fedez dice che avrebbe dovuto fare.

 

WILLARD_ASYLUM_FOR_THE_CHRONIC_INSANE,_SENECA_COUNTY

 

Le valigie del Willard Asylum testimoniano un mondo estraniato dal mondo eppure presente nei gangli della nostra geografia mentale più segreta e nascosta, come la stanza di sgombero in cui si rifugia Gregor Samsa della Metamorfosi Kafkiana: il mondo - l’asilo - dell’inconscio affiorante come materiali di un naufragio. Se riuscite a non piangere scorrendo le foto del sito vuol dire che non siete ancora passati da quella che Carmelo Samonà - il grande e per lo più ignorato scrittore siciliano - ritiene l’esperienza fondamentale dell’essere umano: aver costeggiato la follia, essersi misurati con la sua presenza diffusa.

Il mondo nelle valige di Willard è il mondo rivelato di ciascuno che abbia - per un tempo più o meno lungo - fatto i conti col senso e nonsenso della sua e dell’altrui vita. Col senso, perché ogni cosa, a breve, ne mantiene uno: questa bambola è la bambola di Biscuit di mia nonna, e dunque un ricordo di lei. Col non senso, perché non ha senso che una bambola ottocentesca di Biscuit si trovi nel cassetto dei calzettoni da trekking in cui hanno preso posto anche la scatola dei filtri fotografici e i Moleskine.

 

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Cases

 

Chi vuole conoscere il nonsenso della vita, assieme al suo senso effettivo, non ha che da decidere di passare un’oretta nei pressi delle casse dell’Ikea semplicemente a veder passare i carrelli su cui convivono per breve tratto i materiali più incongrui - piantine grasse, poltroncine da esterno, canovacci,  i montanti della Billy - il cui senso è dato esclusivamente dalla storia e dai desideri del soggetto che li ha strappati agli scaffali e ora passa lo scanner sui codici a barre che ne permettono la sintesi alienata: un numero in euro.

Le valigie di Willard sono, moltiplicata per 400 e per ciascuno degli oggetti contenuti nelle 400 valige, la vita secondo A casciaforte, canzone napoletana in cui la memoria sogna di trovare pace nel piccolo utero ritrovato di una scatola piena di oggetti-lampo che illuminano un passato che non si vuole lasciar svanire. Un passato sacro di frammenti estranei fra loro  e nello stesso tempo collegati nella mappa abbacinata di chi solo in essi riesce a trovare un istante di consistenza: il becco di un pappagallo, le lettere di Rosina, un ritratto formato visita e altre catastrofi.

 

https://youtu.be/tY8AC-ivLjI

 

Ci sono le valigie di chi non è riuscito a diventare un artista - con le sgorbie e gli scalpelli per il legno, o l’essenza di trementina e gli stracci per pulire i pennelli. Ci sono i volti su fotografie che aprono abissi di storie d’amore e di guerra. Ci sono i materiali per viaggi che non sono mai avvenuti. I fiori finti di un ricordo dimenticato.

C’è la vita intera di chi, guardando queste immagini, si trova improvvisamente all’arrivo dei bagagli in aeroporto, e fra i tanti trolley, valige segnate dall’usura, zaini da cinquanta litri che non potevano trovar posto nelle cappelliere, aspetta che giunga anche il suo borsone e mentre vede passare quelli degli altri ripensa - come Proust prima di addormentarsi si figurava tutti i letti in cui aveva dormito - alla serie infinita (apparentemente infinita, di fatto limitatissima) delle valige sue, di quelle dei suoi genitori e nonni e fidanzate. Perché, in fondo, tutte quelle che gli passano davanti sono la sua, di vita.

La nostra, ha detto un grande che se ne intendeva, «non è l’esperienza di una vita sola, /ma di molte generazioni / senza dimenticare qualcosa che è del tutto inesprimibile /lo sguardo indietro, al di là della certezza / della storia documentata» (T. S.Eliot, The Dry Salvages).  Il terrore primitivo. E così, sentendo il rumore del tapis roulant sotto queste immagini tenere e allucinate, ciascuno può affondare nella sua, solamente sua, follia con cui ha trascorso gli anni di una vita che sembra all’improvviso fatta di poche ore, di un geranio e un balcone, di una fotografia, come canta Paolo Conte in Una giornata al mare, con ragioni e motivi sempre più difficili da trovare, ma in realtà già noti da sempre, inaccessibili e superstiti.

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