Lo stupro di gruppo di una 16enne non si può definire "una ragazzata"

«È stata una ragazzata». Una frase che risuona come un'eco inquietante. È la frase che alcuni parenti di cinque ragazzi del Salernitano, di età compresa tra i 15 e i 17 anni, hanno usato per giustificare il loro atroce gesto. Uno stupro di gruppo ai danni di una ragazza di 16 anni. Giovanissima lei, giovanissimi loro. L'hanno avvicinata mentre stava passeggiando per le strade di San Valentino al Torio. Poi l'hanno condotta in un garage e lì l'hanno violentata, a turno. È successo nella notte tra domenica 26 e lunedì 27 giugno. Lei, a differenza di tante altre vittime di violenze, ha avuto il coraggio di parlare subito, di piangere, di mostrare le terribili ferite psicologiche, oltre che fisiche. È difficile commentare una notizia così schietta e brutale nella sua semplicità. Il 28 giugno, però, ci ha provato Michela Murgia sulle pagine di Repubblica. E lo ha fatto con parole tanto semplici quanto scontate, per certi versi, ma proprio per questo belle e forti. Vi riproponiamo la sua riflessione.
Quando una ragazza viene stuprata da un gruppo di coetanei - come accaduto nel Salernitano - in Francia si utilizza il termine "tournante" che, letteralmente, significa "far girare". Espressione forse brutale per designare uno stupro, ma anche molto efficace. Visto che ciò che accade quando un branco di maschi violentano a turno una ragazza è proprio questo: la si fa "girare" tra amici come se fosse una sigaretta o una lattina di birra.
La si condivide e ce la si spartisce come se si trattasse di un semplice oggetto; la si utilizza e la si butta via come se fosse solo una cosa che appartiene a tutti e che quindi, di fatto, non appartiene a nessuno. Che problema c'è mai, sembrano pensare questi ragazzi convinti di non far altro che divertirsi tra compagni, nel "servirsi" di una donna-oggetto? Chi lo dice che una ragazza che viene "fatta girare" soffre? "Che c'è di male?", si chiedeva già il Marchese de Sade accusato di aver violentato una prostituta. "Non è lì per questo?"
La filosofa statunitense Susan Brison, raccontando la violenza sessuale di cui lei stessa era stata vittima da giovane, definisce lo stupro come un "assassinio senza cadavere". Una violenza devastante che distrugge ogni riferimento logico e da cui è estremamente difficile riprendersi anche dopo molti anni; anche quando le tracce esterne sono ormai quasi del tutto scomparse. Quando si viene violentate, spiega Susan Brison, l'abisso della disintegrazione interna resta talvolta per sempre. Esattamente come restano la paura e la sensazione di impotenza, la difficoltà di incollare i cocci di un'integrità sbriciolata e l'impossibilità di raccontare agli altri quello che si è veramente vissuto. Ci vogliono anni per poter riuscire a integrare questo "pezzo di vita" all'interno di una narrazione coerente. E, per poterlo veramente fare, c'è bisogno che qualcuno ascolti, anche quando i ricordi sembrano incongrui; che qualcuno accompagni, senza domandare nulla. Anche perché l'umiliazione subita viene spesso rinforzata dal sentimento di impunità di quegli aggressori che faticano a rendersi conto della gravità del proprio gesto.
Se l'uomo, "per natura", penetra, perché la donna dovrebbe soffrire nell'essere penetrata? Se l'uomo, "per natura", è predatore, perché la donna si dovrebbe rifiutare di essere trattata come una preda? Tanto più che, quando ci si ritrova in gruppo, sembra evidente seguire il movimento collettivo e comportarsi come gli altri: se lo fai tu, allora lo posso fare anch'io; se lo facciamo tutti, non c'è niente di male. E poi non si tratta, in fondo, di una semplice ragazzata? Non è un solo un gioco? Perché non ci si dovrebbe poter divertire almeno quando si è giovani?