Monsignor Giovanni Martinelli

L'ultimo italiano in Libia

L'ultimo italiano in Libia
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L'ultimo italiano rimasto in Libia si chiama Giovanni Innocenzo Martinelli. Ha 73 anni ed è il vicario apostolico di Tripoli, in pratica il vescovo. Quattro anni fa la sua chiesa contava circa 150mila battezzati, adesso il gregge si è ridotto a quattro preti, sei suore e una comunità di filippini: 300 persone in tutto. Nato a Tarhuna, 65 km a Sudest della capitale libica, famiglia veneta, studi sacerdotali in Italia, monsignor Martinelli è tornato in Libia più di quarant'anni fa e dal 1985 governa l'unica parrocchia, dedicata a San Francesco, a pochi passi dalla nostra ambasciata ormai deserta. In questi giorni drammatici, in cui il caos libico è in cima alle preoccupazioni dell'Europa, il vicario di Tripoli sembra l'unico a mantenere la calma e a non lasciarsi travolgere dagli avvenimenti. L'unico italiano a ripetere ai giornalisti di varie testate che lui non se andrà, costi quel che costi. Abbiamo messo insieme le riposte date da monsignor Martinelli a diversi giornali, tra i quali Repubblica, il Corriere del Veneto e a Radio 24 e montato questa intervista.

Monsignor Martinelli come sta?
«Più o meno bene».
È deciso a rimanere in città.
«Resto, devo restare. C'è ancora un gruppo di cristiani che ha bisogno di essere assistito. La mia comunità è qui, come faccio a mollare? Sarebbe un tradimento».
In quale situazione?
«Bisogna farsi coraggio, la Libia è un Paese che va amato. Bisogna capirlo e saperlo incontrare».
Ma oggi è possibile rimanere per il mondo cristiano che lei rappresenta?
«Sì, ne sono certo. È un concetto che va al di là della fede. Comprende il piano umano. L’amicizia. Dobbiamo trovare il modo di far risorgere questo Paese. Non con la forza ma con il dialogo, che è mancato per troppo tempo».
Non ci sono più italiani a Tripoli.
«No, sono rimasto solo».
L’Is dice “siamo a Sud di Roma”. Esce dalla sua chiesa?
«No».
Accanto a lei rimane la comunità di filippini.
«Sì sono circa trecento persone».
In vicariato chi l’aiuta?
«Altri quattro sacerdoti. Poi ci sono le suore, sono sei».
Si ricorda un momento così difficile? O adesso è peggio di sempre?
«Credo sia il momento più difficile di sempre. Con Gheddafi avevamo anche scambi di amicizia (eppure nel 1986, all’indomani dell’attacco missilistico contro Lampedusa, i soldati del colonnello lo arrestarono a Bengasi e lo trattennero per qualche giorno, ndr ). Era una persona intelligente, anche se un po’ matto. Di sicuro non è stata la persona più cattiva per la Libia: è stato un moderato che ha avuto per noi parole di stima e rispetto, non ci faceva paura».
Ne ha ora che la minaccia è quella jihadista?
«No, paura no. Anche se vedo concretamente le teste tagliate, questo sì. E mi dico che potrei fare anche io quella fine. Non so. Non so fino a dove mi porterà questo cammino. Se mi porterà alla morte, vorrà dire che per me Dio ha scelto così... Io comunque da qui non mi muovo. E non ho paura».
Insomma, quelli dell'Isis non la spaventano neanche dopo le terribili immagini dell'uccisione dei 21 cristiani copti.
«Gli estremisti dell'Is sono dei fanatici con la testa montata, ma in Libia non saranno più di un centinaio e non capisco perché l'Onu voglia fare un intervento militare che valuto inopportuno».
Ha dovuto assistere ad esecuzioni?
«No».
È stato però minacciato in qualche modo?
«In chiesa sono venuti a dirmi che devo morire. Ma io voglio che si sappia che padre Martinelli sta bene e che la sua missione potrebbe arrivare al termine. Se la fine della mia missione dev’essere testimoniata con il mio sangue, lo farò. Anche se Dio non cerca teste mozzate, ma altre cose in un uomo... D'altra parte, San Francesco lo aveva detto: chi vuole andare tra i saraceni deve lasciare tutto... Per me poter dare testimonianza è una cosa preziosa. E io ringrazio il Signore che mi permette di farlo, anche con il martirio».

Lei è un francescano. L’ha chiamata papa Bergoglio?
«Non ancora. Magari lo chiamerò io. Ma non mi piace mettermi in mostra».

 

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