Oltre mille al corteo

«Marisa, vittima di un non uomo» Deborha Sartori, 8 marzo in piazza

«Marisa, vittima di un non uomo» Deborha Sartori, 8 marzo in piazza
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«Parlo a nome di mio papà, mia mamma e mia sorella, che purtroppo è stata vittima di un non uomo, di un amore in cui credeva e che poi si è rivelato frutto di morte. Mia sorella si chiama Marisa, è successo il 2 febbraio 2019». A parlare è Deborha Sartori, sorella di Marisa, uccisa a Curno dall’ex marito Ezzedine Arjoun, che non voleva accettare la fine dell’unione. Anche Deborha quella notte è rimasta ferita nel tentativo di difendere la sorella maggiore dai colpi di coltello. La 23enne, emozionatissima, è intervenuta al termine del corteo con circa mille persone, con diverse autorità locali, che si è snodato per le vie del centro di Bergamo nella serata di venerdì 8 marzo, organizzato da Non una di meno – Bergamo.

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«Mi costa tanto questa cosa, perché non ho mai parlato in pubblico. Vorrei dire alle istituzioni soprattutto di aiutarci, perché io e mia sorella per un anno intero siamo andate dai carabinieri, che è la prima cosa che una donna pensa in situazioni come questa. Ma i carabinieri ci dicevano: “Finché non succede qualcosa noi non possiamo intervenire”. Ma dopo quello che è successo, anche se sono intervenuti, non è servito – ha aggiunto lasciandosi prendere dalla commozione -. Per fortuna il mio avvocato, che una donna con due m… così, ha dato una lezione alle istituzioni». Una lezioni vera, di 4 ore, a 70 carabinieri, sulla prevenzione, e su come aiutare le donne che ne hanno bisogno. «Purtroppo le donne, in queste situazioni, danno l’impressione di gridare troppo “al lupo al lupo”: denunciano e poi tornano con l’uomo che le fa soffrire. Ma le donne che hanno aiuto vanno ascoltate la prima volta, perché poi subentrano altri meccanismi, tra cui la difesa della famiglia, la paura che quell’uomo possa far male ai propri cari. Guardate le vostre amiche – dice rivolta al pubblico -, guardate bene le vostre colleghe negli occhi, perché si capisce che non stanno bene».

I simboli contano. Poi ha parlato della panchina rossa di Curno: «È un simbolo, c’è chi dice che non serve a niente. Ma i simboli invece servono: abbiamo riunito tanta gente. C’era un libro rosso per scrivere i propri pensieri, l’hanno fatto solo i bambini. Una bambina ha scritto: “Noi siamo femmine ma non ci meritiamo che ci facciate del male”. Un bambino, invece: “Io da grande mi impegnerò a non essere cattivo”».

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