Il mio viaggio ad Amatrice 8 mesi fa quando sullo scempio ci fu silenzio

Entrare ad Amatrice non è un’impresa da poco. Per farlo occorre imboccare una quantità indefinita di tornanti, scorciatoie e ponti improvvisati. Il parroco del paese, Savino D’Amelio, mi aveva anticipato qualcosa per telefono, quando avevo chiesto come si arrivasse al centro. Mi aveva detto «Passi da Saletta, da sopra. Così avrà un’idea reale di quello che è successo qui». Mi riprometto di tener presente quest’indicazione quando lascio Ascoli Piceno alle mie spalle e il navigatore inizia a segnalare poco meno di quaranta chilometri ad Amatrice. La strada su cui viaggio inizia a cambiare, si trasforma in una provinciale piatta e completamente sgombra, sfila liscia tagliando in due un letto di pendii punteggiati qua e là da qualche vecchio podere.
Spelonga, «non c'è molto da chiedere». Prima che i cartelli mi indichino la fine delle Marche e l’inizio del Lazio vado incontro a Spelonga, frazione di Arquata del Tronto. Guardandolo sulla cartina dell’Italia appare come un fermacampione microscopico attorno cui Marche, Lazio e Umbria gravitano secondo un tacito accordo. Spelonga conta poco più di 250 abitanti, e quando ci passo accanto è un paese accartocciato su se stesso. Le poche costruzioni che almeno per metà sono rimaste in piedi ricordano i tasselli di un presepe ben fatto, i grossi mattoni color muschio sono incastonati l’uno sull’altro con precisione artigianale. Accosto la macchina per guardare meglio, so che a muovermi è la fascinazione che si prova rovistando in mezzo alle tragedie.
Tento di avvicinarmi appena al ponticello inagibile per vedere quanto sia terribile quello che c’è sotto, quando sento una voce. «Sta cercando qualcuno?». Voltandomi scorgo la figura di un uomo, avrà poco più di sessant'anni. «Non è che voglio farmi gli affari suoi eh, ma non so chi potrebbe trovare, qui non c’è nessuno». Eccetto lui e sua figlia, che però sono passati solo per recuperare qualcosa e stanno per fare ritorno ad Ascoli Piceno, dove vivono a casa di parenti fino a data da destinarsi. Spiego che sono diretta ad Amatrice, che ho un appuntamento con il parroco e che vorrei raccogliere qualche testimonianza, fare delle domande. «Ah, ad Amatrice non c’è molto da chiedere». Me lo dice sorridendo con pazienza, il tono è così indulgente che improvvisamente mi sento stupida. Aspetto che se ne vadano e scatto qualche fotografia con lo smartphone, per ricordarmi che sono andata fin lì per raccogliere e non per dubitare.
L'ingresso autorizzato. Rientrando in macchina sento però di essere già una persona diversa. Mi sforzo di recuperare nella memoria l’entusiasmo di quel viaggio improvvisato, ma mi distrae la vista di alcuni cumuli di indicazioni stradali radunati agli angoli delle stazioni di benzina, abbandonati lì in attesa che tornino a nascere i luoghi che indicavano. Recito a mente l’incipit con cui dare il via all’intervista a D’Amelio come fosse un mantra contro l’incertezza, e intanto la bandiera a quadretti bianchi e neri che sventola sul navigatore mi segnala con una certa pressione che "la tua destinazione si trova sulla destra". Sulla destra, invece, trovo solo un massiccio posto di blocco. Alcuni militari separano la mia macchina da quello che risulta essere il Comune di Amatrice. Mi avvicino, abbasso il finestrino e fingo una certa familiarità con quello che so di dover dire. «Ho un appuntamento con il parroco, sono una giornalista. Posso passare?». Negativo. Scopro da loro che un ingresso autorizzato esiste, che lo raggiungo se taglio attraverso quella strada, passando per quell’altra ancora e da lì percorro poi un numero indefinito di frazioni, di vie sconosciute.
La lunga attesa a vuoto. Mi metto in cammino senza programmare più, e dopo svariati chilometri lungo tornati circondati da verde senza soluzione di continuità, sono alcune tende della Protezione Civile piantate accanto a una strada disgregata ad annunciarmi l’inizio del mondo devastato che cercavo; proprio di fronte a quell’accampamento c’è quel che rimane di un Bed&Breakfast. Da una delle sue finestre si dispiega la gigantografia del volto di un ragazzo, intorno ai trent'anni, occhi verdi. Al telefono D’Amelio conferma il nostro appuntamento, mi dice: «Vediamoci tra venti minuti, davanti al Comune». I venti minuti pronosticati diventano trenta, poi quaranta, poi cinquanta. Quel tempo lo trascorro all’interno del municipio improvvisato, mentre mi guardo attorno spaesata e con l’agilità di un elefante cerco un angolo dove mettermi. Decine e decine di persone mi passano davanti, vanno da una stanza all’altra, telefonano, confrontano dati, controllano pile di documenti. Mi sistemo accanto alla macchinetta del caffè, e l’occhio mi cade su un avviso scritto in grassetto, incollato su una delle porte degli uffici: "SE HAI UN PROBLEMA, RICORDATI CHE IN QUESTA STANZA NE ABBIAMO MOLTI DI PIÙ”. Assisto affascinata ad un lavorio silenzioso e ostinato, una danza spontanea che vanta un ritmo segreto al suo pubblico. Scoccata l’ora di attesa, ancora nulla.
Segni di sopravvivenza. Decido quindi di muovermi, di esplorare i dintorni, e mi incammino verso la periferia del paese imboccando una larga strada leggermente in salita. Le ore di luce stanno terminando ormai, e sulle case polverizzate cade ora il blu acceso e soffocante dei pomeriggi invernali. Bevo un caffè in un bar grande quanto un pugno, senza radio, televisione, nessun tipo di sottofondo che distragga dalla sensazione di silenzio perenne. La barista avrà poco meno di trent’anni, gli unici avventori sono tre operai dallo sguardo stanco e vigile. Vorrei lanciarmi, chiedere loro qualcosa, ma la schiettezza della loro normalità mi inibisce. Esco, vado a farmi un altro giro. Sui cancelli delle abitazioni scopro che il bisogno di cercare ancora sopravvive anche nella forma di volantini spogli e diretti: in mezzo alla desolazione asettica del paesaggio spicca l’appello di Antonello, che ha perso Stella, la sua gatta siamese “con la coda un po’ storta”. La sua descrizione è corredata da una fotografia che ritrae una bella micia mentre riposa placidamente su alcuni cuscini colorati.
Quello che resta. Proseguo oltre, finché non mi trovo davanti a una vasta palazzina scoperchiata della sua parete frontale, aperta come un vaso segreto di cui tutti ora possano sbirciare il contenuto. La sua condizione pubblica la rende vulnerabile quanto una casetta delle bambole. Mentre fisso con un’ossessione maniacale i suoi dettagli più privati, ho la sensazione di essere osservata a mia volta, anche se attorno non c’è nient’altro che un sottile strato di nebbia gelata che impregna le vie deserte. Capisco allora che sono come staccata dall’immagine di me stessa, l’occhio esterno da cui mi sento giudicata con tanto rigore è in realtà il mio, erede di quel retaggio moralista che mi ricorda che non sta bene farsi gli affari degli altri. Resto attanagliata allo spettacolo che ho di fronte, osservo ciò che è rimasto di un salotto, dove il pavimento superstite tratteggia con diabolica precisione il bordo lungo il tavolo di legno, al centro della stanza. Poi, all’estremo opposto della palazzina, la mia attenzione scivola su un lungo vestito blu, un abito da donna smanicato rimasto appeso all’anta di un armadio. Quel pezzo di stoffa che irradia estate mi trascina con violenza nella sfera della quotidianità domestica a cui è appartenuto, prima che il terremoto lo sorprendesse. Mi ci vuole qualche secondo per capire che quel vestito mi colpisce tanto perché potrebbe essere il mio.
Il racconto di don D'Amelio. Nel mio cervello ammutolito riemerge il ricordo dell’intervista, e mi affretto a tornare verso il municipio. Ma nel tragitto scorgo accanto alla chiesa-container la figura di D’Amelio, in compagnia di una suora. Mi avvicino, gli rivelo la mia identità. Tutto si snoda in modo estremamente semplice, mi invita a entrare in quella chiesa improvvisata, e cominciamo. Quando gli chiedo di partire dall’inizio mi rivolge uno sguardo che è anche un lampo spontaneo di stupore nauseato, di ribellione. Dura il momento di un istante, ma lungo abbastanza da farmi capire che lo sto costringendo a ripetere cose che ha già raccontato centinaia di volte. E mentre elaboro una strada per recuperare a quella mia cattiveria gratuita, i miei pensieri si affossano, coperti dalle sue parole: «Il 24 ero nella casa di riposo Padre Minozzi, una casa di riposo con ventisette anziani, non tutti autosufficienti. La notte della scossa appena ci siamo svegliati li abbiamo portati fuori tutti, per fortuna la struttura ha tenuto, almeno nel 90 per cento. Subito dopo mi sono preoccupato di scendere in paese e ho cominciato a guardare lo scempio lasciato dalla violenza del terremoto, la distruzione che ha portato. Il sindaco, tra le prime cose, ha detto che Amatrice non esisteva più, ed era vero. Anche le cose più antiche, che nessun terremoto era riuscito a intaccare prima, sono state sbriciolate.
Quando è cominciata l’estrazione dei corpi, nel giro di un paio di giorni le vittime sono salite a 250, tra residenti e ospiti. Perché in quella settimana si stava svolgendo la cinquantesima sagra dell’Amatriciana, il paese era molto affollato. Altre 150 vittime sono state contate nelle frazioni, che in totale sono settanta. La notte del 24 alcune di queste sono state decimate, annullate come Amatrice. Altre non avevano subito grossi danni, fino al terremoto del 26 e del 30 ottobre, che invece non ha lasciato scampo e ha devastato tutto. Dopo quella seconda scossa nessuno ha più voglia di rientrare nelle proprie case. La paura ora domina le persone che sono cresciute qui, lo scenario è apocalittico. Oggi la popolazione di Amatrice è composta da circa ottocento persone. E sono quelle costrette a rimanere, soprattutto per lavoro, tra chi è impiegato nel Comune, all’ospedale, nella scuola, chi ha tentato di riaprire qualche piccola attività. Oppure ci sono quelli che hanno gli animali, che non possono abbandonare il bestiame; c’è poi un nutrito gruppo di anziani che vivono in famiglia ma che a tutti i costi non se ne sono voluti andare, non hanno accettato l’idea di spostarsi. Adesso ci sono i segni di speranza e di riprese, la scuola è ricominciata a tempo record, tante realtà stanno funzionando, certo, ma stiamo vivendo in una realtà di precarietà totale. Tra di noi abbiamo costruito una relazione filiale, ognuno può contare sull’aiuto dell’altro. Tutti nutrono molta fiducia in me e io mi assento solo in rarissimi momenti, sono presente il più possibile.
La religiosità non la si inventa con il terremoto: possono esserci stati dei contraccolpi negativi, seguiti poi da dei rientri. Ho avuto diverse testimonianze di persone che immediatamente, dopo il 24, dopo aver perso i figli, i nipoti, hanno mostrato un forte senso di ribellione. Nel giro di due mesi però sono riusciti a tornare sui loro passi. Ho la testimonianza di una donna che quella notte ha perso la figlia e la nipotina. Tempo dopo è venuta a chiedermi scusa per avere usato certe espressioni, per aver mostrato una rabbia tale. C’è un tipo di religiosità che è emersa e che si è trasformata nel fondamento della vita di queste persone. Dove c’era una fede superficiale prima, questa tragedia non ha rafforzato nulla. Tante persone ci stanno riflettendo, sul senso della vita, della povertà, del materialismo di cui siamo impastati. Stanno prendendo coscienza che la vita non può essere realmente solo quello che sembra. Altri la vivono con la rabbia per aver perso le cose care, non riescono ad andare oltre. La solidarietà dall’Italia è stata ed è grande: l’attenzione è stata continua, Quello che dico sempre è che tutti qui hanno perso tutto, ma tutti hanno avuto tutto quello che era necessario per vivere, benché nella precarietà della situazione».
Il bisogno di dubitare. Dopo l’intervista con D’Amelio me ne sono rimasta ad Amatrice, alternando camminate senza una meta precisa a lunghe pause in macchina, a guardare il brulicare continuo. Da quando ci sono stata è passato un arco di tempo giornalisticamente imbarazzante. L’idea era di scrivere un pezzo per Natale, scoprire cosa avrebbero fatto gli amatriciani per le feste, con le loro scuole improvvisate, le speranze per il nuovo anno, la voglia di rialzarsi. Il mio direttore era scettico. Diceva che era uno spunto a cui sicuramente chiunque aveva già pensato. E aveva ragione. Scrivere un pezzo diverso sarebbe stata un’ardua impresa, con i riflettori che le festività avrebbero riacceso sul dramma del centro Italia. Alcuni di quei riflettori li ho visti personalmente, ho incrociato grappoli di giornalisti posizionati nei punti nevralgici della notizia. Attrezzati con microfoni e telecamere puntate sulla gente comune, li ho osservati chiedere per quanto ancora, come si farà con il freddo, a quando le nuove casette per tutti. Ho assistito alla loro agilità mentre aspettavo che il coraggio mi crescesse dentro e mi salvasse da quella situazione irragionevole, quella di sentirmi in dovere di fare domande che non mi sentivo in diritto di formulare. Al posto del coraggio, invece, mi è cresciuto il bisogno di dubitare. Di domandarmi che cosa ne sarebbe del giornalismo se alle piogge di domande si sostituisse il silenzio. Se si decidesse di aspettare anche le sensazioni più lente, se gli si desse il tempo di lievitarci dentro, di cambiare, di evolvere senza lo stordimento di una montagna di parole. Cosa ne sarebbe del giornalismo se l’autentica notizia stesse nella contemplazione di un vestito blu, che potrebbe essere anche il tuo.