Il museo gulag scomodo ai russi Ecco perché Perm-36 verrà chiuso

«Cesserà le sue attività e inizierà un processo di auto-liquidazione», sono queste le parole che decretano la chiusura dell’unico museo-memoriale costruito sul sito di un ex gulag staliniano. Situato nel villaggio di Kuchino, nella regione di Perm, la porte di Perm-36 (il nome del campo di lavoro) saranno definitivamente chiuse al pubblico dopo mesi e mesi di pressioni da parte delle autorità russe. Asianews, sito che ha reso nota questa notizia, spiega che «i funzionari governativi hanno ispezionato Perm-36 per accuse di "estremismo" l'anno scorso, dopo un documentario (dal titolo "Quinta colonna") trasmesso dal canale filo-Cremlino NTV, che presentava il museo come un'istituzione a libro paga degli Usa. Secondo quanto ha scritto Kommersant, il programma sosteneva che il museo scagionasse i nazionalisti lituani e ucraini, imprigionati nel campo di lavoro per aver combattuto contro l'Unione sovietica».
Fermata la ristrutturazione. In realtà la complicata vicenda attorno al museo era già mutata a partire dal 2012. Come spiegava un comunicato stampa dell’amministrazione museale di qualche anno fa «il finanziamento dei lavori di ristrutturazione è stato bloccato completamente e così anche la campagna per includerlo nella lista del patrimonio Unesco». È quindi da diversi anni che il governo russo tenta distruggere quest’evidente testimonianza del regime staliniano. Infine durante la primavera dello scorso anno le autorità locali avrebbero interrotto anche l'erogazione di acqua ed energia elettrica, utilizzando la scusa del mancato pagamento di alcune bollette. Insomma questo posto doveva chiudere assolutamente.
Fu chiuso 28 anni fa. 30 dicembre 1987. È questa la data che sancisce la chiusura ufficiale di questo campo di lavoro. La storia di Perm-36 non è poi tanto diversa da quella degli altri gulag voluti da Stalin. Costruito nel 1946, doveva innanzitutto rispondere ai pretenziosi obiettivi industriali promossi dal governo attraverso i piani quinquennali. Nella fattispecie, questo campo aveva il compito di preparare grandi quantità di legna da destinare alla ricostruzione dei villaggi devastati dalla seconda guerra mondiale. Dopo la morte di Stalin nel 1953, anziché smantellarlo, il regime lo riconvertì, spedendoci gli agenti banditi dagli organi di sicurezza. Nel corso degli anni, le fila dei prigionieri s’ingrossarono notevolmente con l’arrivo di altri detenuti: dissidenti politici, scrittori, preti e leader di movimenti nazionali. Anche qui, come in tanti altri gulag, i prigionieri erano spesso costretti a lavorare in condizioni a dir poco disumane.
Divenne museo negli anni Novanta. Viktor Chmyrov, responsabile del progetto "Memorial", un’organizzazione non governativa russa che lotta per la difesa dei diritti dell’uomo, aveva trovato questo campo in uno stato di totale abbandono agli inizi degli anni Novanta. Mosso dal desiderio di trasformarlo in luogo aperto al pubblico, dove poter incontrare uno capitolo dei più tristi dello spietato regime Staliniano, si è messo subito al lavoro per trasformarlo in museo. «È un sito assolutamente unico in Russia perché alcune baracche risalgono all’epoca staliniana», raccontava Chmyrov in un intervista di qualche anno fa a Le Monde. I campi di lavoro venivano allestiti in funzione di compiti specifici: costruzione di strade ferrovie fabbriche, scavo di canali, abbattimento di foreste. Se non venivano distrutti alla fine dei lavori, marcivano da soli». E così le case dove i prigionieri vivevano sono stati conservati e restaurati, così come le minuscole celle di isolamento, i gabinetti collettivi e il dormitorio con le assi come letti. Questo posto è davvero unico, perché svela al mondo l’organizzazione e il funzionamento di mostruosi campi di lavoro voluti da Stalin.
«Il tempo del disincanto». Il museo ha una media di 35mila visitatori l'anno, dove oltre alla visita delle strutture che hanno ospitato i detenuti è possibile assistere anche ad incontri, testimonianze o proiezione di filmati che raccontano la storia russa di quegli anni. Ad un certo punto, questo luogo ha iniziato a dar fastidio e il governo ha deciso che doveva nuovamente cadere nel dimenticatoio. «Negli Anni Novanta c’era un grande interesse per la storia delle repressioni, legato alla democratizzazione del Paese», ha spiegato ancora Viktor Chmyrov. «La lotta contro il partito comunista era di attualità, si parlava dei suoi crimini. Poi è venuto il tempo del disincanto rispetto ai riformisti». Disincanto che, a quanto pare, si è tramutato in vera e propria censura. La notizia assume ancor più risalto dopo un recente sondaggio del centro indipendente Levada: il 52% della popolazione russa guarderebbe ancora con ammirazione e fascino non solo la figura di Stalin ma anche il suo operato, senza contare che la propaganda ufficiale continua ancor oggi a glorificare e magnificare i successi dell'era sovietica.