Ora che è tempo di unioni civili

Perché dico no al matrimonio (ma come faccio a tutelare i figli?)

Perché dico no al matrimonio (ma come faccio a tutelare i figli?)
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Le vie alternative al matrimonio negli ultimi tempi si sono fortunatamente moltiplicate. Tra unioni civili - che in settimana partiranno anche a Bergamo - e contratti di convivenza, ora c’è l’imbarazzo della scelta. E questa è una musica per le mie orecchie, visto che sono diventata allergica alle nozze ma che sto seriamente pensando di unirmi, non so ancora in che modo, all’uomo che è al mio fianco da 10 anni. Non credo nel matrimonio, è stato difficile confessarlo a me stessa, ma alla fine ne ho preso atto.

Da ragazzina, e fino a 6/7 anni fa, sognavo ancora lo sposalizio classico, in chiesa, con il vestito bianco a meringa, il banchetto, le bomboniere, la solennità dell’organo tra Marcia nuziale e Ave Maria di Schubert. Lui invece no, da ateo mi diceva: «Ti sposo anche domani, ma in Comune». Io per puntiglio rifiutavo, volevo che la nostra unione fosse consacrata davanti a un altare. Il rito civile mi metteva mestizia, soprattutto da quando avevo assistito a una scena piuttosto triste. Municipio di Bergamo, diverse coppie nel cortile in attesa del proprio turno come dal salumiere, un usciere che chiamava: «Siete quelli delle 11.30? Tocca a voi».

 

 

Poi una serie di circostanze mi ha completamente allontanata dal cattolicesimo all’ombra del quale sono cresciuta e da ogni altra religione. Non credo più, non prego più, ho trovato strade alternative per nutrire la mia parte spirituale. Amo il mio compagno, ma non lo voglio sposare. Neanche in Comune. Non mi piace fare promesse che non so se riuscirò a mantenere, che non so se lui riuscirà a mantenere. Non ho più le granitiche certezze di quando avevo vent’anni e ora rimango perplessa davanti a coloro che scelgono di suggellare il loro amore con un tatuaggio indelebile, simulacro di eternità. Io l’ho fatto, avevo 19 anni e mi sono fatta “marchiare” con l’iniziale del nome di quello che pensavo fosse l’uomo della mia vita. Ecco, non è lui il padre dei miei figli, non è lui che mi fa battere il cuore. Dopo anni di convivenza ci siamo lasciati. Se ci fossimo sposati? Ora, 20 anni dopo, avrei un divorzio alle spalle. La vita è imprevedibile, faccio i conti con questo. E forse, al contrario di quanti contraggono matrimonio con facilità, anche più volte nella vita, ho troppo rispetto per questa istituzione per prenderla alla leggera. Non ho dubbi sul mio sentimento, ma non voglio che venga ingabbiato, normato, istituzionalizzato.

 

 

Fosse per me non mi unirei nemmeno civilmente. Ma, c’è sempre un ma. Anzi in questo caso ce ne sono due: figli, piccoli. E noi non siamo più giovanissimi. Non mi interessa tutelare giuridicamente il mio amore, mi interessa tutelare i miei bambini. Se non avessimo avuto eredi, il problema non si sarebbe posto: avremmo proseguito con la nostra convivenza, scegliendo di stare insieme ogni giorno, di rispettarci e sostenerci senza la costrizione di un vincolo. I miei genitori si sono sposati in Comune dopo 33 anni di relazione. E anche loro lo hanno fatto per una questione di mera tutela economica. Il cuore non ha bisogno di firme, le banche sì. Ma i miei bambini? Ora che sono madre non posso più pensare solo a me stessa. Ho il dovere e la responsabilità di pensare a loro, al presente e al futuro. Cosa succederebbe se il loro padre non ci fosse più? Economicamente, con il mio lavoro diventato purtroppo precario, non potrei mantenerli a lungo senza la reversibilità della pensione.

 

 

«I figli sono figli, e hanno tutti gli stessi diritti – mi spiega l’avvocato Maria Cristina Ghilardi, presidente dell’Aiaf di Bergamo, l’Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e i minori -. Non è più come una volta che si distinguevano i figli naturali, ovvero nati al di fuori del matrimonio, da quelli legittimi. Giuridicamente sono ora finalmente tutti uguali». Parlando con lei, scopro che non c’è solo l’unione civile come alternativa al matrimonio per le coppie omosessuali. «Esiste anche il contratto di convivenza che deve essere stipulato in forma scritta, con atto pubblico o scrittura privata, con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformità  – mi illustra il legale -. Nel documento si mettono tutti gli obblighi, i diritti e i doveri che si vogliono far rispettare all’interno della propria coppia, di ordine patrimoniale e relativi alla vita comune, sia essa omosessuale che eterosessuale».

Buono a sapersi, mi dico. Pure questa potrebbe essere una soluzione per noi e per altre coppie etero un po’ “anarchiche”, che non amano sottostare troppo a leggi e vincoli, che prendono la vita così come viene, senza eccessiva programmazione. E che intendono scindere il sentimento dalla pura forma contrattuale. L’unione davanti a un pubblico ufficiale la vivremo come un semplice sigillo burocratico, tanto che, se dovrà essere, siamo intenzionati a non organizzare festeggiamenti. O meglio, ce ne andremo a cena io e lui, ci guarderemo negli occhi, ci terremo la mano e brinderemo al nostro amore, forte e libero.

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