Come mai le donne peshmerga sono l'incubo degli jihadisti
L’Isis avanza, gli aerei americani bombardano per cercare di bloccarli, l’esercito curdo combatte di villaggio in villaggio nel tentativo di riguadagnare qualche striscia di terra in più agli uomini del Califfato. Ma nel drammatico scenario dell’attuale Medio Oriente c’è una testimonianza che fa riflettere sui fondamentalisti islamici. Secondo quanto riportato dal New York Post, i temibili jihadisti avrebbero grande timore delle armate curde, e in particolare della numerosa componente femminile che arricchisce le sue fila. A dirlo non è soltanto il giornale, ma anche alcuni tra i più importanti servizi d’intelligence americani e britannici, che pare abbiano trovato uno dei “talloni d’Achille” del nuovo stato islamico.
Perché i jihadisti temono le combattenti peshmerga. Tra i miliziani musulmani c’è infatti una convinzione: chi muore in battaglia ucciso da un nemico finisce in paradiso, accolto dalle famose 72 vergini con gli occhi castani. Ma se il colpo decisivo parte da una donna, allora il combattente è destinato all’inferno. All’’origine di questa credenza ci sarebbero i sermoni di alcuni predicatori salafiti fedeli all’Isis, che avrebbero detto ai soldati di «non essere certi» circa la destinazione «in un Paradiso con 72 vergini» per «chi viene ucciso in combattimento dalle mani di una donna».
«Credo l’Isis sia più terrorizzato da noi che dagli uomini», spiega Tekoshin, una ventisettenne impegnata nelle battaglie nel nord dell’Iraq. Kalasnhikov alla mano, non sembra spaventata da quanto sta accadendo su quel fronte, anzi pare sicura della paura degli uomini del Califfo nei confronti del suo battaglione. «Queste ragazze mi hanno comunicato tutta la loro soddisfazione per aver cominciato a combattere l’Isis e aver fermato la loro avanzata, ucciso alcuni di questi combattenti in fuga», spiega Ed Royce, politico usa membro della House of Representatives tornato da poco proprio da un viaggio in Kurdistan. Il tutto sarebbe accaduto senza neanche troppa difficoltà e spargimento di sangue, se è vero che tantissimi fondamentalisti islamici avrebbero letteralmente girato i tacchi alla vista delle ragazze armate.
Addestrate e orgogliose. Una notizia che ovviamente, se concreta come pare, andrebbe analizzata con interesse da chi sta organizzando le contromosse alle marce dell’Isis. Sono 550, infatti, le donne peshmerga arruolate nell’esercito curdo, a comporre il secondo battaglione comandato dal colonnello Nahida Ahmad Rashid. Sono madri, mogli, sorelle e figlie: qualcuna ha un parente che la attende a casa, qualcun’altra un marito pure lui arruolato nell’esercito. Alcune sono state radunate anche in un’unità di protezione speciale femminile, pronta a combattere in Siria: «Siamo state allenate per usare fucili di precisione, kalashnikov, granate a razzo e a mano», racconta la 26enne Hend Hasen Ahmed. «Per me e il mio popolo, andrò sul Monte Sinjar, per morire o vivere lì da libera». «È un onore essere parte di un moderno Stato musulmano che permette alle donne di difendere la loro terra», spiega un’altra al New York Post. Fa parte del battaglione femminile sin dalla sua nascita, nel 1996. «Dobbiamo però prenderci cura anche delle nostre responsabilità personali e di famiglia», chiude una di loro. «Per questo dico che è molto più difficile essere un peshmerga donna».
Già dai tempi di Saladino. All’inizio le reclute erano soltanto 11, offerte dall’Unione patriottica del Kurdistan di Talabani per dimostrare con i fatti come si volesse realmente integrare la donna nel futuro Stato. In realtà, le prime notizie di donne curde arruolate in un esercito risalgono al XII secolo: il Saladino ne apprezzava l’addestramento e la fedeltà, tanto da spingere per volerle al suo fianco.